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Virgin Report

Regia di Jesús Franco vedi scheda film

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La recensione su Virgin Report

di undying
1 stelle

Un "report" tedesco imbastito da un produttore scaltro che affibbia a Jesús Franco (regista qui a dir poco menefreghista) un po' di filmati spazzatura da riciclare per oltre metà tempo. Quel che poi realizza il cineasta spagnolo è una burla, spacciata per documentario.

 

locandina

Virgin Report (1972): locandina

 

Pseudo documentario che partendo dall'idilliaco Giardino dell'Eden conduce lo spettatore in giro per il mondo e in epoche differenti. La perdita della verginità femminile è il tema che unisce culture e tempi distanti tra loro, attraversando trasversalmente la narrazione. 

 

scena

Virgin Report (1972): scena

 

I film tedeschi realizzati nei primi anni '70, impostati al pari di (falsi) rapporti/documentari sulle studentesse (Schulmädchen-Report), come già abbiamo avuto modo di scrivere, hanno ottenuto un clamoroso successo, tanto da dare il via in breve tempo ad una infinita serie di "pellicole parallele". In Germania, paese d'origine del filone, i produttori si sono gettati a capofitto nel settore, subodorando guadagni facili. Artur Brauner è uno di questi, qui intenzionato a spendere il meno possibile, tanto per dire, in prossimità del budget zero. Come fare? Recuperare spezzoni di filmati senza valore, residui di documentari forse mai finiti e chiamare un esperto del riciclo: Jesús Franco. Basterà dire che nella durata di poco superiore all'ora, circa metà tempo è costituito da riprese "spazzatura", cosa evidente sia dall'estraneità degli spezzoni al contesto specifico, sia dalla differente grana (sembrerebbero sequenze di almeno 5 o 6 anni precedenti). Il materiale di recupero propone tribù di indigeni, folle di arabi e gruppi indiani tattuati e coloriti, intenti a cantare e danzare in mezzo alle frasche. Il resto deve essere opera di zio Jess, e lo si capisce dal solito inappropriato (ab)uso di zoom. Risparmiato sulla pellicola, Brauner punta ad ulteriori tagli economici: impone così di girare un allucinato incipit in bianco e nero (con una fotografia pessima) e per quel poco che resta lascia carta bianca all'improvvisazione di Franco. Che in un paio di giorni porta a casa una serie di scene scollegate tra loro, e tre minuti di interviste (false) con domande cretine fatte per strada ad occasionali passanti tedeschi (probabili membri della scarsa troupe e/o loro conoscenti). Un'operazione fraudolenta in piena regola, ai danni degli spettatori (dell'epoca) paganti che inconsapevoli sono entrati nelle sale di proiezione. E si sono così trovati di fronte a questo delirante e folle Jungfrauen-Report. Il tema è quello della verginità (femminile of course): e si parte, senza reticenze, da un ipotetico Eden dove la prima a rimetterci l'imene è nientemeno che Eva.

 

Jesús Franco

Drácula Barcelona (2017): Jesús Franco

 

Quindi Franco, facendo doppi, tripli e quadrupli salti mortali carpiati, racconta assurdità (spacciate come reali) facendo sfarfugliare in voice over un narratore e viaggiando avanti e indietro nel tempo senza minima logica; altrettanto (cioè senza senso) spostandosi sulla terra in basso, in alto, a destra e sinistra come nemmeno il giramondo di Gulliver. Franco ci porta in Asia per mostrarci degli asceti che, onde allontanare la tentazione carnale, siedono nudi con le chiappe sulle ortiche, mentre nei paraggi le fanciulle fan cadere la verginità in modalità "selfie". Quindi si passa, con la logica della follia, al medioevo per assistere al matrimonio di Anna e Frederick e susseguentemente al sistema adottato dalle ex vergini per ripristinare lo stato originario (della vulva immacolata), a danno dell'ingenuo futuro coniuge. Eccoci poi al Nord Italia, quindi di nuovo al medioevo con un monaco sporcaccione (tema boccaccesco, più volte accarezzato nel film). L'unico momento che sembra essere stato pensato, forse scritto e girato a mò di logica è quello ambientato ai nostri giorni: Christina non riesce a consumare il suo primo rapporto con il fidanzato (tanto spavaldo quanto impotente) ma tornando a casa -dopo aver scoperto che la madre l'ha chiusa fuori- riesce a fare la prima esperienza grazie al generoso (e più maturo) vicino di casa, pronto a darle asilo e stappare una bottiglia di champagne, a preambolo dell'impresa. Di nuovo, senza alcun minimo collegamento, si torna indietro nel tempo, accostando romani e siciliani che le vergini... le rapiscono (letteralmente!), obbligandole, dopo averle violate, a congiungersi in matrimonio. Saltando di palo in frasca, Franco ci offre i nativi americani, poi gli indiani: culture accumunate ancora una volta dal fatto che le giovani, l'illibatezza, la perdono da sole (come, è tutto uno scherzo). Si parla, a proposito degli indiani, di matrimoni stabiliti da mariti ricchi, in grado cioè di comperare le mogli: ma siamo in culo al mondo, i personaggi si ciondolano sulle amache, suonano tamburi fatti di legno e vestono con foglie (chi sarebbero dunque i ricchi? In una micro società tribale e selvaggio di tale fatta?). Ancora un salto in Cambogia, tra gli indigeni, poi si torna al medioevo, tra monaci piuttosto spregiudicati. A questo punto, tolto il brutto materiale di repertorio, Franco è riuscito a mettere in fila una tale serie di castronerie da lasciare intontiti. Ma la ciliegina sulla torta deve ancora arrivare: scopriamo così che nell'Amazzonia anche i ragazzi subiscono il rito dello sverginamento, non prima d'esser stati circoncisi. Qui il regista sfodera il massimo della cura: attori europei con i visi (ma non i corpi) truccati che girano, e saltellano scimmiescamente in pieno giorno, con torce accese! Il livello di demenzialità non è ancora saturo: infatti, nemmeno manovrasse una macchina del tempo, alla velocità della luce, secondo il regista c'è ancora spazio per inserire filmati di repertorio, piombando in Arabia per mostrarci la poligamia islamica (che non c'entra nulla con il tema del film). Finale delirante tra i banchi di scuola e poi in discoteca, due luoghi apparentemente diversi, ma nei quali si conferma come oggi (quello di ieri, ossia del 1972, n.d.r.) il culto della verginità sia davvero inesistente. Ma perché, lo era veramente in passato (prossimo o remoto che sia), visto quel che ci è stato mostrato? No, la visione di Virgin report non è un abbaglio. Né un incubo, e nemmeno un'allucinazione. È la triste realtà: ovvero un film di Jess Frank (simpatica l'idea di germanizzare il nome, trovata ben migliore del prodotto), girato a tempo di record -con il povero Howard Vernon a fare da comparsa- senza dineri, privo di sensualità ed erotismo e, tanto per non farsi mancare niente, montato alla cazzo.

 

scena

Virgin Report (1972): scena

 

"Durante la cerimonia, e poi nella festa, Fermina Daza conservò un sorriso che sembrava fissato con la biacca, un’espressione senza anima che qualcuno interpretò come il sorriso di scherno della vittoria, ma che in realtà era un povero espediente per nascondere il suo terrore di novella sposa vergine." (Gabriel Garcia Marquez) 

 

F.P. 03/02/2020 - Versione visionata in lingua tedesca (durata: 66'48")

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