Se un unico istante di felicità non solo non è poco, anche per una vita intera, ma può valerla, può racchiuderla e conferirle un senso, anche un’inquadratura, al cinema, può contenere un universo, quello di un autore grande, immenso, cristallizzandone il sentimento e magnificandone lo sguardo.

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Le notti bianche

Le notti bianche di Visconti, da Dostoevskij, comincia con un piccolo bus che si arresta in una piazzetta, e con un capannello di passeggeri che si congeda mentre la camera si appresta lentamente a isolare il soggetto del nostro interesse, Mario (Marcello Mastroianni), che in un primo momento è smarrito in mezzo al drappello, mescolato alle figure temporaneamente in scena, in disparte rispetto al punto di fuga, discostato e già confondibile, immagine comune, spersonalizzata. «Sta dormendo in piedi» dice una signora del figlio, l’unico bimbo a rapporto, desto nella notte che condivideranno ancora per poco; e proprio quello stato di trance, di scivolamento fuori dalla veglia, di sospensione a metà fra la condizione vigile di lucidità e quella rarefatta e perduta nella surrealtà onirica, è già qui, con Mario e vicino a noi.

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Le notti bianche

Mario strappa il biglietto dell’autobus in tanti frammenti, che gli svolazzano intorno come i fiocchi di neve che in seguito adorneranno il suo sogno d’amore; poi fa per dirigersi verso un bar, ma l’insegna luminosa lo ha tradito, e si spegne un attimo prima che l’uomo possa varcare la soglia del locale.

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Le notti bianche

Le insegne degli altri negozi luccicano nel buio e fanno promesse, per il momento, non esaudibili: Mario cammina in mezzo alle loro parole di luce, lungo la strada bagnata dalla pioggia, verso l’orizzonte, ma quando altre persone appaiono e la affollano, sbucate dal nulla come fantasmi, una distratta processione silente, l’uomo fa dietro front e percorre la via in direzione contraria, riprende la sua solitudine, venendo verso di noi. Sa dove vuole andare? Sa dove vuole finire? Lo osserviamo mentre vaga, saluta un’ombra dietro un angolo buio, viene inseguito da un cagnolino bianco, randagio come lui, e possiamo soltanto intuire la sua incertezza, la malinconica flânerie del sonnambulo, nell’altrove livornese allestito in studio (a Cinecittà, nel Teatro 5).

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Le notti bianche

Visconti gira infatti il film durante un periodo di fitto operato teatrale, da cui la fascinazione subita e accolta per una ricostruzione scenografica essenziale, in quantità ridotta ma enunciativa di uno stato d’animo, quello del nostro protagonista, per il quale la città immaginata, con il suo palco astratto (intensa e ispirata qui l’influenza di Carné e specialmente di Il porto delle nebbie), si scontorna dal vero, è attraversata da rumori catturati in esterni reali ma inseriti in una scenografia che non li produce naturalmente. La nebbia, il vento, il cielo e le luci sono artificiali, l’ambiente urbano ha l’assetto di una fiaba dechirichiana, per raccontare Visconti ha necessità di smarcarsi dalla «formula divenuta condanna» del neorealismo, erompendo oltre l’adesione ricercata al documento di realtà, protraendosi verso un’imitazione del sogno, opponendola a modelli di racconto per lui ormai obsolescenti.

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Le notti bianche

Una dissolvenza incrociata conduce Mario nei pressi di un ponte, alla figura di spalle di una donna, il cui umore è inafferrabile: forse è incantata dall’atmosfera, forse sta aspettando qualcuno, forse sta soffrendo. Mario si avvicina, le passa accanto, la supera, poi sente un singhiozzo e torna indietro. Nel frattempo, la luce di luna e stelle circondano la donna e già sublimano in lei una bellezza, un anelito che a Mario, omino piccoloborghese, di limitate vedute, e senza nulla per cui sopravvivere al quotidiano, non appartiene; una poesia che cercherà di far sua, anche se ogni cosa, fin da questo incipit, separa lui e Natalia, a partire dalla loro posizione nella notte (lei bloccata, lui a zonzo).

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Le notti bianche

L’amore è una discrepanza, un’increspatura momentanea, che in ultimo si sottrarrà all’orizzonte delle sue possibilità; Mario uscirà sconfitto da quella luce, dall’illusione di poter amare (come) lei, ma al termine di quelle notti infinite imparerà a sognare.
Because the night belongs... to the fools who dream.

Autore

Fiaba Di Martino

Fiaba riceve in fasce un nome lezioso che le profetizza l'amore per le storie, nel cinema, sul cinema e del cinema: a dieci anni vota i film disegnando a matita i pollici di Film Tv accanto ai biglietti della multisala più bella di sempre, l'Arcadia; di lì a poco si innamora delle finestre di Hitchcock, degli occhi di Jean Gabin e dell'aplomb di Lauren Bacall, e lo urla al mondo prima dal giornalino scolastico del classico poi dai siti web (MyMovies, Players, PositifCinema, BestMovie.it), mentre frequenta corsi di scrittura alla Scuola Civica di Cinema milanese e scrive un libro su Xavier Dolan con la collega positivista Laura Delle Vedove. Lost in translation nello stereo totale, ritrova se stessa nella pioggia di Madison County, nelle lettere di Gramsci, nelle ferite di David Grossman, nelle urla liberatorie di Sion Sono, nelle risate di Shosanna Dreyfus, nei silenzi di Antonioni, nelle parole di Frances Ha («non sono ancora una vera persona») e nello spazio tra i titoli di testa e quelli di coda.

Il film

locandina Le notti bianche

Le notti bianche

Drammatico - Italia 1957 - durata 94’

Regia: Luchino Visconti

Con Marcello Mastroianni, Maria Schell, Jean Marais, Clara Calamai

in streaming: su Rai Play