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TYE SHERIDAN. Adolescenza, faccia, attore.
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Nato e cresciuto a Elkhart, Texas – fatevi un giro con Street View per vedere da vicino l’ambiente cittadino e sociale – classe 1996, Tye Kayle Sheridan è entrato come un fulmine tra i prodigi attoriali del nuovo secolo. Esordio col botto, è il figlio di Brad Pitt e Jessica Chastian in Tree of Life (Terrence Malik, 2011) scelto tra più di 10.000 bambini, ed è il giovane protagonista di Mud (Jeff Nichols, 2012), ruolo che gli ha fruttato diverse nominations e anche premi come il Las Vegas Film Critics Society, il Phoenix Film Critics Society e il Washington DC Film Critics Association.

È però con il suo ruolo in Joe (David Gordon Green, 2013), che vince il primo premio più importante della sua carriera a conferma di un esordio cinematografico, lungo tre pellicole, che non poteva certo passare inosservato. Per l’irrequieto adolescente figlio dell’outsider Gary Poulder, alla sua unica esperienza cinematografica e scomparso proprio a fine riprese, Tye Sheridan conquista giustamente il Premio Marcello Mastroianni al Festival di Venezia di quell’anno. Un premio cumulativo, immagino, che tiene in considerazione il lavoro con Malik, il ribelle e sognatore preadolescente di Mud che difende senza battere ciglio l’eroe romantico e idealizzato interpretato da Matthew McCounaghey, e infine l’ottima prova al fianco di Nicholas Cage.

E dopo? Per molti Tye Sheridan finisce qui, tra i taglialegna di Joe o tra le acque del Mississippi in Arkansas. Invece, per chi ama più la politica degli attori che degli autori, Sheridan continua a lavorare e infila uno dietro l’altro una serie di titoli tra l’indie e la marginalità distributiva che non solo gli fanno onore come professionista, ma che gli permettono di interpretate personaggi in linea con le sue tipizzazioni migliori, con buona pace degli oltranzisti della trasformazione e del metodo ad ogni costo.

Nel 2014 affianca John Travolta e Christopher Plummer in The Forger (Philip Martin, 2014), silenzioso thriller minimalista impostato sul modello narrativo degli heist movie, con Tye Sheridan ragazzino malato e apatico che darà una mano al papà e al nonno per un ultima rischiosa rapina in un museo d’arte. L’anno successivo è nel cast corale di Entertainment (Rick Alverson, 2015), altro film dallo spirito indipendente e dal taglio minimalista, estraniante quanto basta per abbinare gli impressionanti paesaggi desertici del Mojave ai rottami umani del ventre molle dell’America, tra dignità e disperazione. Tye, che qui interpreta Eddie the Opener, ovvero il clown sconclusionato che apre gli spettacoli provinciali dello stand up comedian interpretato da Gregg Turkington, ha solo un ruolo di contorno, ma la sua presenza sa di mistero svelato. È l’unico personaggio dotato di allegria, positività ed energia, ma al tempo stesso sembra essere anche lui un’ombra tra le tante. I suoi spettacolini, dalla surreale performance nel carcere alla masturbazione/defecata mimate in un night club, sono spiazzanti, estranianti e al tempo stesso poetico-realistici.

Con il 2015 inizia un periodo di intenso lavoro per il giovane texano dagli occhi di ghiaccio. Non solo affianca Ewan McGregor nei biblici quaranta giorni nel deserto nel film di Rodrigo García Last Days in the Desert (2015), ma affianca con mestiere Ezra Miller durante l’esperimento carcerario-universitario del 1971 diretto dal prof. Zimbardo, qui interpretato da Billy Crudop in The Stanford Prison Experiment (Kyle Patrick Alvarez, 2015),inoltre partecipa al discreto Dark Places (Gilles Paquet-Brenner, 2015) interpretando il fratello di Charlize Theron da giovane. Con il fumettistico Scouts Guide to the Zombie Apocalypse (Christopher Landon, 2015), torna protagonista assoluto e guida un terzetto di boys scouts sul viale del tramonto – ovvero dell’adolescenza – alle prese con un’epidemia zombi e i problemi di cuore tipici di quell’età. Nel cast anche Patrick Schwarznegger che fa giustamente la fine che meritano certi personaggi, tipici corpi sacrificali dell’horror carnale.

Se in X-Men: Apocalisse (Bryan Singer, 2016), è Ciclope, mutante che non sa tenere a bada il suo sguardo di fuoco – il parallelo con l’incapacità di controllare il proprio corpo adolescente è presto fatto – in Detour (Christopher Smith, 2016) torna nei panni a lui congeniali del freddo e monocorde ragazzo marginale, qui suo malgrado coinvolto in una rapina e in una fuga. Il look che sfoggia nel film di Smith è già iconico: un giubbino di pelle giallo che inquadra anche solo esteticamente l’attore come un personaggio del nostro immaginario recente, come Ryan Gosling in Drive (Nicolas Winding Refn, 2011) e Come un tuono (Derek Cianfrance, 2012), ma anche l’Ansel Egort di Baby Driver (Edgar Wright, 2017). Anche in All Summers End (Kyle, Wilamowski, 2017), ottimo film di taglio indipendente che guarda all’adolescenza come specchio per riflettere la condizione dell’adulto, Sheridan è un sedicenne schivo, umbratile, incupito, come suo cliché vuole, che porta addosso il peso di una tragedia di cui è in parte responsabile. A differenza di altri film in cui il suo personaggio adolescente, pur sempre umbratile e marginale, reagisce comunque a modo suo, eastwoodianamente, recalcitrante come un puledro indomito alle avversità e agli inciampi della vita, qui subisce passivo gli avvenimenti e il senso di colpa fino a quando, dopo un percorso interiore travagliato e bipolarizzato, cresce, matura e trova il coraggio di affrontare la realtà. Questo tratto sfaccettato del protagonista permette all’attore di costruire un personaggio diverso e più complesso rispetto ai precedenti, quasi a sigillare con classe e il solito tocco di recitazione in sottrazione, la fine dei ruoli strettamente adolescenziali.

Forse una delle sue performance migliori e purtroppo passate inosservate è quella del giovane marine di The Yellow Bird (Alexandre Moors, 2017). Diciottenne, parte per l’Iraq, ricostruito in un affascinante Marocco quasi fiabesco, sicuramente straniante, e affronta inizialmente l’euforia della guerra e del cameratismo, quell’insana retorica statunitense che porta molti giovani al massacro consapevole, e poi, poco alla volta, si fa strada l’inferno, la turba morale ed etica, il riscontro con i propri pensieri che demoliscono l’impalcatura retorica del militarismo. Ne consegue la tragedia. E, ancora una volta, è il corpo di Sheridan a focalizzare l’attenzione drammaturgica e a comportarsi da chiave di volta. Violato e mutilato, giace tra le macerie. Un piccolo Cristo ucciso dall’orrore della guerra.

In Ready Player One (Steven Spielberg, 2018) Tye Sheridan torna negli abiti a lui congeniali del giovane nerd e interpreta un ragazzo del 2045, marginale e senza amici reali, che passa le giornate all’intero del mondo virtuale OASIS, un software dove tutti possono essere chiunque e fare qualunque cosa e partecipare a varie attività tra cui lavoro, istruzione, socialità e ovviamente intrattenimento. OASIS difatti è soprattutto un gioco online multigiocatore che al momento della morte del suo ideatore, James Halliday, si trasforma in un agguerrito contest per recuperare le tre chiavi seminate dallo stesso Halliday all’interno di OASIS. Il personaggio di Sheridan si rivela essere il migliore in campo e gli occhi di tutti, dai concorrenti alle altre multinazionali informatiche, cadono su di lui. Con il solito broncio monoespressivo e la sua tipica resa scenica, Sheridan è il perfetto attore spielberghiano, ma dello Spielberg pre-Schindler’s List (1993), quello che negli anni Ottanta ha creato veri capolavori di avventura e sogno per i ragazzi dell’epoca, epoca rievocata proprio da Ready Player One grazie a una colonna sonora da urlo e una serie di citazioni e autocitazioni dalla cultura pop al centro della poetica dello stesso film. 

Con The Mountain (2018), torna a lavorare con Rick Alverson e torna in concorso alla 75° edizione del Festival di Venezia. Un film algido e chirurgico, come la sua tematica di fondo, che permette nuovamente a Sheridan di dimostrare attraverso la sua recitazione sottrattiva e monoespressiva la distanza affettiva dell’America di oggi, rispecchiata in quella altrettanto fasulla, ma all’apparenza colorata e speranzosa, degli anni ’50 in cui è ambientato il film. Sheridan è un adolescente introverso, ossessionato dal sesso, plagiato psicologicamente dal padre, Udo Kier, e amante della fotografia, passione che nasconde una naturale ossessione scopica come conseguenza delle sue turbe e della sua introversione. Un Tye Sheridan che nuovamente, attraverso la sua fisicità antiedonistica sa far parlare il proprio corpo e il proprio viso come quasi nessun collega coetaneo, regalandoci così le migliori rappresentazioni dell’adolescenza del nuovo secolo.

Tant’è che Tye Sheridan conquista appunto i palati più fini, perché nella sua monoespressività c’è tutto il gioco della maschera cinematografica che, gusti a parte, può più del metodo e del camaleontismo – vedi attori come Eastwood, Bronson, Van Cleef, Marvin etc. Dalla sua, l’Huckleberry Finn del XXI secolo ha una presenza scenica atipica per la sua età. Invece di esser il bello e muscoloso hot boy interpretato da tanti suoi coetanei, Sheridan resta per il momento fedele al suo biotipo. Allampanato, mezzo ricurvo, spalle spioventi, viso imberbe da fanciullo: Sheridan ha tutta l’aria di essere l’Ellis, il Gary, il Will, il Conrad, il Murph, il Wade e l’Andy dei suoi film, una tipologia di giovane americano marginale che pur avendo i caratteri di una bellezza acerba da coltivare, preferisce essere se stesso. Dall’irrequieto preadolescente delle prime pellicole allo scontroso e introverso adolescente in piena turbolenza ormonale ed esistenziale delle pellicole più recenti, sfacciato e riflessivo allo stesso tempo, Tye Sheridan finora non ha sbagliato un colpo.

Se per molti il monocorde è segnale di limite attoriale, per chi scrive è invece motivo di giubilo perché la maschera è pluriadattabile, plurinterpretativa e permette, più del metodo, di contestualizzare l’interpretazione grazie al potere intertestuale proprio del carattere segnico della maschera. Inoltre l’adolescenza, discussa, interrogata, rappresentata, tematizzata regolarmente da ogni forma artistica, nella speranza di mantenere vivo il ricordo dell’età dell’oro che va scomparendo, rivive sul corpo dinoccolato dell’imberbe Tye come un’allegoria della stessa. Mai come con Tye Sheridan è possibile oggi rivedere e rivivere l’adolescenza con tutte le sue turbe, i suoi slanci emotivi e ribelli, le tensioni sensuali, gli amori panici e cosmici, grazie a una monoespressività d’autore, innata e approfittata, sul cui perenne broncio affiora di tanto in tanto quell’illuminante sorriso che chiama l’applauso.

 

Mauro Fradegradi – Abbiategrasso 16 marzo 2016

Aggiornato 07 settembre 2018

Elkhart, Texas

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