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Tartarughe sul dorso

Regia di Stefano Pasetto vedi scheda film

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La recensione su Tartarughe sul dorso

di MarioC
6 stelle

Kieslowski in salsa triestina? Piano con le esagerazioni. Piuttosto un anelito semplice, sincero e confuso alla poetica del maestro polacco, un lasciar parlare per noi oggetti, animali e sentimenti che compongono un quadro di desolata tendenza alla felicità impossibile, sfuggente e come portata via da quella bora che non si vede mai e che pure si sente, nella sua affascinante capacità di spazzare via il necessario e di lasciare l’ineffabile superfluo. La forza delle cose, gli impercettibili movimenti di un mondo immobile, la possibilità delle infinite combinazioni del caso che gira su se stesso come una trottola ed alla fine, forse, trova un punto di equilibrio nella disperazione, nella sottrazione. Perché la felicità può essere anche il semplice abbandonarsi alle debolezze. Questo è Tartarughe sul dorso dell’esordiente Stefano Pasetto: la storia di due solitudini che si incrociano e si riconoscono, le molteplici giravolte di un amore che si materializza fuori tempo massimo, passando attraverso dolori, mutismi, invisibilità.

Invisibili sono i protagonisti principali, invisibili anche a se stessi. L’ex galeotto abbrutito dalla solitudine dello straniero nella propria terra, la donna senza passato che sacrifica brillanti studi universitari alla cura degli altri: una vecchia zia, un avvocato gentile, soprattutto una tartaruga, quell’animale dai ritmi lenti e dal cuore caldo che, nel caso finisse supino, avrebbe bisogno di aiuto. Come gli uomini: tutti, in un dato momento della nostra vita, siamo stati tartarughe sul dorso, schienati, con la mano tesa a chiedere un qualche intervento salvifico. E’ il caso che li porta a sfiorarsi, è il caso che li farà incontrare ed amare quando nel quadro delle rispettive povertà interiori apparirà una macchia di colore già intravista e mai debitamente assimilata, se non nell’inconscio.

Un’ispirazione di fondo sincera, una scrittura ellittica che neutralizza molti orpelli e lascia parlare le immagini e le (poche) parole, gli scarni dialoghi. La doppia valenza del titolo (le tartarughe sul dorso sono sia gli animali in pericolo di morte, sia un peso genericamente inteso che può gravare sulle spalle di ognuno di noi), le musiche azzeccate e di atmosfera made Banda Osiris. Non tutto è naturalmente riuscito. C’è qualche poeticismo di troppo (il cerchio rosso disegnato sul cuore dell’avvocato, chiaro prodromo di una tragedia annunciata), ci sono alcune imperdonabili ingenuità, una corrività verso il vezzo autoriale davvero pleonastica (il sacchetto di plastica, sconcertante e totalmente avulso dalla narrazione, che ricalca provincialmente il noto American Beauty). Ma il film ha una sua compattezza sghemba, a cominciare dagli interpreti, molto in parte e dalla chimica reciproca evidente, che si nutre di silenzi o mezze parole, sorrisi abortiti, sofferenze che rimbalzano dagli occhi dell’uno in quelli dell’altra e viceversa. Barbora Bobulova e la sua bellezza che pare sempre alla ricerca di un perché irraggiungibile e, soprattutto, Fabrizio Rongione (ben temprato alla scuola dei Dardenne), perfetto nella sua maschera di sgualcito perdente, febbrile e sconfitto, nello sguardo da cane bastonato eppure ancor ringhioso.

 

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