A New Orleans, Spike Lee si è precipitato, con staff e macchine da presa, già poche ore dopo il passaggio dell’uragano, nel 2005. Ne è uscito uno dei suoi lavori più belli, il doc in quattro parti, presentato a Venezia e trasmesso da HBO, When the Levees Broke: A Requiem in Four Acts, che con furia intesseva inchiesta, denuncia e ode appassionata a una città irripetibile, cui nel 2010 era seguito If God Is Willing and Da Creek Don’t Rise, un primo ritorno “sul luogo del delitto” a un lustro dalla catastrofe.

Questa nuova miniserie Netflix, per il ventennale, è un proseguimento di quel percorso, di cui ritrova diversi volti, personaggi e temi - o, almeno, lo è il terzo episodio, lungo 88 minuti e diretto dallo stesso Lee, costellato dalle sue inconfondibili cifre stilistiche, incentrato sulla New Orleans di oggi e capace di sottolineare come questo luogo, pur (o proprio) con il suo stato di eccezionalità culturale, geografica e storica, sia stato e sia ancora un laboratorio preveggente di tendenze catastrofiche globali, dalla gentrificazione all’emergenza climatica alla sperequazione sociale.

Le prime due puntate - una dedicata al contesto e alla tempesta, l’altra all’inondazione e all’allucinante (e razzista) malagestione del disastro - sono buone ricostruzioni dei fatti, per quanto inevitabilmente sintetiche rispetto ai precedenti lavori di Lee. Il quale, vent’anni dopo, sembra faticare molto più di prima a trovare, tra l’inferno e l’acqua alta (come recita il titolo originale), il filo di speranza che allora faceva capolino contro tutti e tutto: riecheggia appena, nel finale, nel trombone di una second line e nella frase «per fortuna, almeno, è tornata la musica».
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