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Himalaya, Were the Wind Dwells

Regia di Soo-il Jeon vedi scheda film

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La recensione su Himalaya, Were the Wind Dwells

di spopola
8 stelle

Partiamo dal regista, un altro dei nomi di punta della cinematografia Coreana che qui in Italia però conosciamo davvero troppo poco (quasi per nulla).

Sicuramente meno innovativo dei suoi più celebrati (e importanti) colleghi che si sono fatti strada internazionalmente confermandosi fra le migliori promesse del futuro (alcuni dei quali prontamente ”risucchiati” – con esiti spesso controversi - nelle nocive spire del sistema hollywoodiano) è comunque un nome di tutto rispetto di quella cinematografia emergente (e proprio per questo, al pari dei gli atri insuperabili Maestri, è anche lui un abituale frequentatore dei festival internazionali fin dal suo esordio nel 1997 con Wind Echoing in my Being, soprattutto quando si tratta di rassegne settoriali come quelle dedicate al cinema asiatico).

Vincitore di ben tre premi al Festival di Busan (che è la città coreana dove per altro attualmente insegna cinema presso la Kyungsung University), si è aggiudicato anche il primo premio al Festival di Deauville del 2008 e il Gran Prix a quello di Friburgo del 2000. Gli manca comunque la consacrazione di altre manifestazioni più importanti e di primo piano, le uniche che riuscirebbero a lanciarlo definitivamente al di là del prestigio che si è già assicurato nella sua terra, anche se da Venezia è già transitato nel 2007 con With a Girl of Black Soil che gli è valso il premio CICAE e il Lina Mangiacapre award, e che è uno dei pochi titoli di una produzione complessiva abbastanza limitata, con i quali è stato possibile confrontarsi qui da noi.

Nato nel 1959, sembra che nelle sue opere che realizza da indipendente siano particolarmente evidenti gli influssi del cinema “occidentale”, il che se corrisponde a verità (io al momento non ho potuto verificarlo di persona poiché ciò che ho visionato – troppo poco – mi ha dato tutt’altro che questa impressione) è probabilmente dovuto al fatto che subito dopo la laurea conseguita presso il dipartimento di Teatro e Cinema di Kyungsung a Busan, è proprio in occidente che è avvenuta la sua maturazione formativa in campo cinematografico. Ha perfezionato infatti i suoi studi a Parigi dove ha frequentato per quattro anni (dal 1988 al 1992) l’Ecole supérieure de réalization audiovisuelle e ha poi concluso li suo percorso europeo con un master che gli è valso il dottorato, presso l’Università Paris Diderot.

Tornato in patria, ha poi fondato una propria casa di produzione (la Dongnyuk Film) che utilizza soprattutto per finanziare i suoi film.

 

locandina

Himalaya, Were the Wind Dwells (2008): locandina

 

Questo Himalaya, Where the Wind Dwelles da lui girato nel 2008 che ho avuto la possibilità di vedere grazie al recente FlorenceKoreaFilmfest nella corposa retrospettiva dedicata al grande attore Choi Min-sik, ha il suo punto di forza proprio nella carismatica presenza di questo eccezionale interprete, ma è anche al tempo stesso un’opera insolita (e molto coinvolgente) che ha un valore intrinseco “a prescindere”.

A giudicare almeno da questo enigmatico e affascinante film che si distacca notevolmente da tutto ciò che ci è arrivato fino ad ora dalla produzione corrente del cinema coreano (almeno per ciò che ci è stato concesso di vedere che è solo una piccola parte dell’insieme), Jeon Soo-il sembra infatti che sia attirato principalmente dall’azzardo di realizzare opere che affrontano strade indubbiamente rischiose ma inedite.

In effetti, preferisce affidarsi alla genuinità della sua ispirazione invece di seguire mode, correnti o filoni narrativi ben consolidati. L’originalità delle sue scelte nella pellicola in oggetto è particolarmente evidente. A questa, aggiunge poi la consumata perizia di uno sguardo che riesce a catturare l’attenzione dello spettatore e a suscitare forti emozioni a partire dalla lussureggiante componente visiva che qui è di straordinaria rilevanza e tutt’altro che accessoria.

Si tratta insomma di un’opera davvero meritevole di attenzione, anche se da sola è comunque insufficiente per farci misurare l’esatta temperatura della sua arte e valutare le effettive qualità anche affabulatorie di un autore che qui mostra comunque di possedere una particolare, indubbia e interessantissima capacità esplicativa. La composizione formale è poi altrettanto ineccepibile, e tale da confermare la sua autorevole conoscenza del mezzo che gli ha consentito – con una forte dose di coraggio - di affrontare una storia che nella sua struttura è quasi un “documentario a soggetto” che si regge però sulla eccezionale prova di un magnifico attore, due elementi che sembrerebbero essere di contrapposizione, ma che qui si amalgamano perfettamente e non mostrano alcuna dissonanza.

 

Il film (che poi racconterà la vita dell'Himalaya e dei suoi abitanti), inizia inquadrando un uomo solo e silenzioso che dà le spalle alla porta di uscita di un ascensore. Un uomo che sarà appunto il motore della storia (ma del quale non ci sarà dato di conoscere nemmeno il nome, come del resto non sapremo mai nemmeno quello di tutti gli altri personaggi che incontreremo - e seguiremo - nel corso del suo lungo e travagliato viaggio con destinazione un villaggio sperduto sulle impervie pendici dell’Himalaya sferzate dall’incessante vento gelato che concede pochissimi attimi di tregua). Saremo così costretti a condividere con lui – sia pure dalla sala - il peso del suo faticosissimo incedere (a volte persino trascinandosi carponi o strisciando sul terreno) su quei sentieri scoscesi irte di pietre e di sassi dove è difficile persino respirare per l’altitudine e le avverse condizioni climatiche.

La sua è una missione importante e necessaria: deve recapitare un messaggio a un’umile famiglia che abita appunto in quei luoghi inaccessibili lontani dalla civiltà, e quando finalmente raggiungerà la meta designata, ci sentiremo anche noi – come spettatori – liberati dal peso sia pure indiretto, delle faticose peripezie da lui vissute sullo schermo (non a caso, il protagonista è interpretato da un attore intelligente e di grande spessore come Choi Min-sik che generosamente ha messo a disposizione dello sguardo al tempo stesso amorevole e impietoso del regista, tutto se stesso (corpo e anima). Jeon Soo-il fotografa così impudicamente, gli insostenibili sforzi fisici, lo scoraggiamento e la determinazione, di un uomo che si conferma disponibile persino a trasformarsi a volte - dentro a una prova davvero superlativa anche come impegno fisico - in semplice, grezzo materiale umano da disporre come accessorio in movimento lungo quelle piste solitamente percorse soltanto dalle capre con le quali l’attore entra in perfetta sintonia “simbiotica”.

Un viaggio davvero massacrante che quest’uomo senza nome porterà a compimento insieme alla sua missione (e alla fine sarà accolto e rifocillato con antica e assorta gentilezza e senza troppe domande, proprio dalla famiglia a cui era destinato il messaggio d recapitare).

Questo forzato soggiorno sulle montagne prima di ritornare a valle, sarà il pretesto narrativo che consentirà al regista di documentarci visivamente sulla vita del villaggio e sulle altrettanto insostenibili condizioni che regolano le giornate degli abitanti di quelle terre ingrate caparbiamente ancorati alle loro radici.

Il ritmo con cui procede in questo scandaglio è particolarmente pacato, minimalista e quasi meditativo, decisamente lontano mille miglia dalle convenzioni di quel cinema commerciale che conosciamo fin troppo bene e che nell’affrontare certe prospettive si abbandona invece spesso a una calligrafia del “bello” che prende il sopravvento su ogni altra cosa, sicuramente affascinante da guardare, ma che non si discosta molto dai filmati didattici del Nathional Geographic con il loro “effetto cartolina” che riempie molto gli occhi e poco il cuore.

 

In questo vero e proprio “tuffo” nel cuore del Nepal e delle sue montagne che comprendono le vette più alte del pianeta costantemente battute da tempeste e venti antichi di secoli, pare così di ritornare a un passato che a noi può risultare appartenere quasi alla preistoria per le disagiate condizioni di sopravvivenza e la lotta continua e feroce da sostenere per contrastare le condizioni avverse di una natura che sembra a volte un po’ matrigna, ma che esalta alla fine il caparbio altruismo che crea forti legami di solidarietà in mancanza dei quali sarebbe davvero impossibile resistere, e lega indissolubilmente fra di loro, le sue popolazioni temprate dalle intemperie e dalla povertà. La cinepresa del regista è qui davvero preziosa e “illuminante” (grazie alla virtuosistica fotografia di Kim Seong-tae che si colloca al limite di un’eloquenza magniloquente ma mai referenziale perché supportata da una solida sostanza narrativa che la pone pur nella sua opulenza, ben oltre la semplice “esibizione” di una bravura tecnica fine a se stessa) soprattutto quando spia l’ostinata solitudine del protagonista, all’inizio un vero e proprio corpo estraneo nel contesto, ma lentamente sempre più immerso dentro a un territorio tanto inospitale che a volte sembra davvero intenzionato a espellerlo, a volerlo annientare fino ad annullarlo.

Il mondo circostante è quello degli altipiani sempre più rocciosi e brulli, l’atmosfera è rarefatta, quasi sospesa, il silenzio – rotto soltanto dal penetrante sibilare di quel vento impetuoso e implacabile, è assoluto, quasi disturbante. Non ha insomma molto da dire nemmeno Choi Min-sik: ha solo le espressioni del volto a sua disposizione, gli sguardi, la fisicità del corpo e poco altro per raccontarci la sua storia dentro a un universo altrettanto parco di parole dove però sono sufficienti i rari sorrisi dei nepalesi, le poche frasi gentili verso quello straniero venuto da così lontano, a rendere empatico e profondo il rapporto: squarci visivi così poeticamente esposti, che valgono davvero molto di più di un lungo monologo e che sicuramente riescono anche a toccare in maniera diretta e con meno enfasi, il cuore degli spettatori che osservano dalla sala.

In tali fantastici scenari così maestosamente esaltanti nella loro turgida bellezza priva di vegetazione, l’uomo sembra davvero una formica sperduta nell’immensa, infinita dimensione di un creato magniloquente, ostile, difficile da domare, e dove anche le ruvide facce incartapecorite dal sole e screpolate dal vento che incontriamo, sembrano portare i segni e le sedimentazioni che il tempo ci ha depositato sopra insieme ai detriti polverosi dei secoli trascorsi e della loro storia.

Qui tutto sembra più lento, ha un ritmo diverso da quello del nostro quotidiano, anche ogni gesto o attitudine, a cominciare da quelle più consuete e abituali come il camminare o preparare il cibo. Una differenziazione di tempi e di modi che si riverbera pure nei rapporti, persino nel guardare o produrre musica….

E’ in questo andamento sospeso e quasi surreale, che si innesta la presenza fortemente anacronistica e stridente di una civiltà che si incarna nel nostro protagonista che arriva dalla Corea industrializzata con la sua inutile cravatta, i vestiti occidentali che ben presto si sgualciscono sotto il peso della polvere e delle intemperie (e si trasformano quasi in un coriaceo sudario), il suo altrettanto inutile bagaglio (una valigia rigida, di metallo) e quella “missione” da onorare. Ma appena mette piede fra quei sassi, in quello scosceso deserto di pietra che lo ingloba e lo circonda, anche ciò che è venuto a fare, quell’azione da compiere ad ogni costo affrontando una terra tanto inospitale, sembra perdere peso fino quasi a smarrire il senso primario che aveva prima: c’è solo il fascino di quei sassi su   quegli altipiani, del vento che soffiando ti racconta storie, di quelle inaccessibili montagne che dominano dall’alto delle loro innevate cime: tutto il resto passa davvero in secondo piano, così che poi alla fine quello che anche noi vediamo e percepiamo, è solo lo smarrirsi di un uomo tra rituali, gesti, e sguardi che sembrano venire da un altro pianeta, da un’altra dimensione, ma che sono invece semplicemente recuperati da un passato per noi tanto lontano che stentiamo a riconoscere come l’unica realtà concreta e certa della vita che è poi quella di ricordarsi che alla fine tutti (e quindi anche noi e indipendentemente da come abbiamo scelto di vivere e di comportarci), non siamo altro che polvere alzata dal vento e che il vento può disperdere a suo piacimento (che è poi proprio il messaggio che il film intende trasmettere).

Merito del regista, certamente, dei sui lunghi e talvolta estenuanti piani sequenza che sottolineano un’immobilità temporale che a volte si dilata modificando le sue forme, ma merito anche (e soprattutto) di Choi Min-sik e della sua sublime arte del recitare perché tutta la pellicola gira intorno a lui, e senza di lui sicuramente un film così difficile e stressante per i luoghi impervi in cui è stato girato, non si sarebbe mai potuto realizzare: “io penso che l’attore sia come uno sciamano e che la recitazione sia una possessione divina. Non saprei spiegarlo logicamente o tecnicamente. Anch’io ho studiato recitazione all’università. Ho imparato la postura e la dizione. Sono cose necessarie, ma alla fine sono solo strumenti secondari. Nella recitazione, come nella possessione divina, si deve accogliere una cosa con tutto il corpo. Se ci fosse un ‘manuale da sciamano’ e se si potesse imparare, sarebbe bello, ma non esiste una cosa del genere. Certo, il contesto ti aiuta, il tamburo che suona, le parole di incitamento, le indicazioni del regista, ma alla fine quello che devi fare lo devi realizzare da solo. Di fronte all’anima creata dall’autore, ci si potrà preparare attraverso discussioni e analisi, completare il lavoro con la tecnica, ma le indicazioni su come far entrare quell’anima dentro il mio corpo non sono scritte da nessuna parte. L’attore deve per forza averci già pensato da solo prima che il regista dia il via all’azione e inizi la ripresa”. Sono parole dell’attore che diventano “certezze” quando ci si confronta con i risultati sublimi delle sue creazioni: si sono infatti percepite come indiscutibili verità quando lo abbiamo scoperto nelle pellicole che gli hanno dato la fama internazionale (A Better Tomorrow; Failan; Ebbro di donne e di pittura ; Old Boy; Sympaty for Lady Vengeance; I Saw the Devil) e si avvertono a maggior ragione anche in questo Himalaya , Where the Wind Dwelles il cui progetto lo deve aver così profondamente coinvolto (lo si capisce benissimo dal risultatati) da fargli interrompere prematuramente – pur di poter aderire al progetto del regista - la sua isolata, coraggiosa decisone di interrompere la sua attività a tempo indeterminato, presa al momento in cui la sua fama aveva raggiunto il punto più alto della consacrazione, per protestare contro la decisone del suo governo (da lui non condivisa e che gli aveva fatto perdere l’entusiasmo per il mondo del cinema) di ridurre la quota - prevista per legge - degli schermi nazionali da riservare alle produzioni locali. Un ritorno davvero clamoroso e inaspettato il suo dopo ben tre anni di volontaria assenza dagli schermi, e non è certamente un caso che abbia deciso di farlo con un film insolito come questo da girare in terra straniera e in cui domina come ho già detto una forte componente documentaria a cui anche la recitazione è assoggettata, mettendosi al servizio di un regista indipendente e più marginale, anche se già molto amato dalla critica del suo paese.

 

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