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Organ Trail

Regia di Michael Patrick Jann vedi scheda film

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La recensione su Organ Trail

di mck
6 stelle

Pallottola va su, pallottola torna giù.

 

 

“Organ Trail” (2010), rilasciato inizialmente come gioco gratuito per browser basato su Adobe Flash, è un “retro zombie survival game” parodiante la serie di giochi educativi per computer “the Oregon Trail” (1971), che a sua volta palesemente prende il nome dall’Oregon Trail, la pista di migrazione e commercio nata nella prima metà del XIX secolo collegante il MidWest al Pacifico. E va beh, ma tutto ciò non c’entra manco ‘na ceppa con questo “Organ Trail” (2023), invece, ch’è dunque principalmente l’involontaria epitome d’uno spettacolo non raro, ma neppure così comune [mi viene in mente il recente Stephen King di “Fairy Tale” (♥), ad esempio], in campo artistico-narrativo, e che perciò a volte naturalmente accade e quando succede altrettant’ovviamente risulta ben difficile distogliere lo sguardo dalla degenerazione e dal crollo (ma non si può chiedere troppo e men che meno avere tutto) di un lavoro che per i primi 25 minuti pre-titoli di testa regge bene e riesce a dire la sua nell’intento di raccontare una storia basata s’una… pista battuta innumerevoli volte, il western, e che poi, imboccando il sentiero secondario tracciato da Quentin Tarantino e Craig S. Zahler (l’espediente dell’insensibilità congenita al dolore che porta la storia verso derive horror non raggiunge l’esperienza del grand guignol cannibalico di “Bone Tomahawk”) e manutenuto aperto d’alcuni altri, fra i quali Emma Tammi, si sfalda e collassa sotto al peso della propria faciloneria scritta da Meg Turner, qui alla sua opera prima (ma ho come l’impressione che la ragazza si farà), e diretta da Michael Patrick Jann (che, dopo essersi messo dietro alla MdP un quarto di secolo fa per “Drop Dead Gorgeous”, s’è riciclato quale metteur en scène di episodi di serie/film tv, fra cui “Reno 911!”, di fascia medio-bassa).

 


Note positive: l’interpretazione grezza e sui generis della protagonista, Zoé De Grand’Maison (“Riverdale”), e quelle dei suoi comprimari Nicholas Logan (“Hap and Leonard”), Olivia Grace Applegate (“Love & Death”), Clé Bennett (“the Man in the High Castle”) e quella faccia da David Arquette di Sam Trammell (“True Blood”), mentre chiudono il cast Mather Zickel, Lisa LoCicero (moglie del regista), Lukas Jann (figlio del regista), Michael Abbott Jr., Alejandro Akara e Thomas Lennon, e poi la fotografia di Joe Kessler (“Reno 911!”, “Maron”) e soprattutto le musiche di Craig Wedren (“United States of Tara”, “GLOW”, “Reno 911!”, “Yellowjackets”) e Jherek Bischoff (“GLOW”), mentre il montaggio è di David Codron (“the Opposite of Sex”), che torna a collaborare col regista dai tempi di “Drop Dead Gorgeous”, e il Montana del 2022 impersona quello del 1870.

 


E finalmente un film in cui viene contemplato il minimo e quindi non impossibile rischio che se spari in aria perpendicolarmente al suolo i proiettili possono ricaderti sul cranio con tutte le conseguenze del caso.

* * ¾ (***)

 


♥ Le prime 250 pagine del (pen)ultimo romanzo kinghiano, in attesa di "Holly", sono paragonabili a quanto di meglio prodotto dall'autore, ma il fatto è che poi, senza spoilerare alcunché, così, de botto, senza senso, tutto collassa, diciamo dal notevole cambio di ambientazione, e non è che tanto il worldbuilding quanto la caratterizzazione dei nuovi personaggi non potrebbero persino dirsi sufficienti, anche se quelli "di là" non hanno lo stesso appeal di quelli "di qua", e il divario è incolmabile, punto, ma lo stacco rispetto alla realtà precedente, così ben strutturata, è di fatto talmente netto che l’interesse del lettore verso il nuovo scenario perde spiccatamente la sua forza ed arranca, ed ecco che per avanzare di 25 pagine c'ho messo il doppio se non il triplo del tempo impiegato per le precedenti 250. E ne mancano ancora 375 alla fine.  

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