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I Love You, Daddy

Regia di Louis C.K. vedi scheda film

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La recensione su I Love You, Daddy

di mck
9 stelle

Ah!, l'intento!

 

«“Civilizzazione”, non importa come la si taglia [ovvero "inquadra", o meglio "intende", qui nel senso/accezione inglese e siciliano del termine, NdR], è un complesso necessario e disordinato di disastro a mala pena coerente di persone che si amano e si odiano le une con le altre, si uccidono e si baciano, si raccontano storie e si ingannano, comprano e rubano le une dalle altre.» 

 

 

Con il suo terzo lungometraggio (il cui più stretto coetaneo/parente è “BoJack HorseMan”), che segue i precedenti “Tomorrow Night” ('98) e “Pootie Tang” ('01), e soprattutto le due serie tv (HBO) manifesto della sua arte, “Louie” (5 stag. dal 2010) e “Horace and Pete” (mini-serie e piccolo gran capolavoro del 2016), forse anzi sicuramente ad oggi il suo capo d'opera (più “Better Things” di Pamela Adlon, oltre a tutti gli spettacoli di Stand-Up Comedy, ovviamente), Louis A. Székely (1957), in arte Louis C.K., mette in scena un suicidio artistico, un presagio, un mea culpa, un grido d'aiuto? Ma per favore! Fatemi un piacere, andatevene a fare in culo e sparatevi in testa. “I Love You, Daddy” è semplicemente un gran bel film, che parla del sempre in divenir ch'è l'oggi. Poi, una raspa fuori luogo di troppo, e via con la Cultura del Piagnisteo, con la Saga – o sarebbe meglio dire, dato l'argomento – con la Sega del Politicamente Corretto. La domanda è tanto facile quanto giusta: davvero esistono persone adulte che si sentono paralizzate e violate - tanto poi da soffrire di disordine da stress post-traumatico - perché di fronte a loro un tizio si masturba come se niente fosse, anzi come se allo sfortunato spettatore dovesse in qualche modo piacere? Davvero hanno una capacità di elaborazione e di reazione così ridotta e minuscola da non riuscire ad alzarsi, sputargli addosso (o no), provare a piegarglielo a 90° (o no) per osservare l'effetto che fa (male) ed uscire dalla stanza? Hanno vissuto nella bambagia per vent'anni e sono improvvisamente scese con la piena aggrappate ad un pero dalla montagna del sapone? Urge audio-visione immediata - sotto forma di Cura Ludovico - di “Ultimo Tango a Parigi”, “Salò, o le 120 Giornate di Sodoma”, “Querelle de Brest”, “Antichrist”. Più probabile che si siano spellate le mani (causa applausi e non solo) dopo l'ennesima, bagnata ri-visione di “American Beauty” et similia. 

 

 

L'unica risposta e obiezione sensata [oltre al racconto delle conseguenze dell'azione - la scena dell'incontrollata masturbazione pubblica compulsiva (qui in “I Love You, Daddy” affidata per interposta persona ad uno sparring partner, il Charlie Day di “It's Always Sunny in Philadelphia”, una specie di (in)consistente Frank Matano/Alessandro Siani) - già raccontate nella 2a stag. di “One Mississippi da Tig Notaro] è questa: bisogna chiarire, rilevare, evidenziare, (an)notare e sottolineare due cose. Le “Persone” di cui sopra, gli “Spettatori”, sono quasi sempre femmine, in un mondo “Maschile” se non “Maschilista”, e il “Tizio” è, quasi sempre, il loro datore di lavoro o possibile datore di lavoro maschio. 

 

[ ↑ Rose Byrne ↑ --- ↓ Helen Hunt ↓ ]

[ ↑ Pamela Adlon ↑ --- ↓ Edie Falco ↓ ]

 

«“Civilization”, no matter how you slice it, uh, it is a necessary, messy complex of barely coherent disaster of people loving and hating each other, murdering and kissing each other, telling stories and lies each other, buying and stealing from each other.» 

 

 

La fotografia (35mm DCP, 1.85:1 ) in B/N (immersa in e illuminante un impianto scenografico - di Amy Beth Silver e Kat Uhlmansiek - à la “Mad Men”, con veri fondali finti - o viceversa - realmente più veri del vero) di Paul Koestner [quasi esclusivamente impegnato in campo televisivo, e solo grande tv: “Louie”, “One Mississippi” (il pilot), “Horace and Pete”, “Better Things”: e in effetti se si facesse il nome di Antonello Falqui - Canzonissima, Giardino d'Inverno, Studio Uno, Teatro 10, MilleLuci - non sarebbe fuori luogo] concretizza un panfocus estremo, totale, un'ampia profondità di campo spinta al massimo estenuante: diaframma chiuso (alta luminosità pervasiva e sensibilità dei sensori aumentata) e focale corta (e punto di ripresa stretto e ravvicinato al soggetto in p.p.) a mettere in scena una gestione degli spazi squisita e succulenta: un film anni ('40) '50 ('60) degli anni '10: Ejsenstejn, Mizogouchi, Ford, Lang, Renoir, fino alla cristallizzazione del culmine apicale in Welles (e Toland) - con tanto di coerenza sonora tra primo piano e sfondo -, e poi, ancora, Huston, Wyler, Hitchcock, Wilder, etc..., sino alla normalizzazione/canonizzazione (e si consideri a tal proposito la prospettiva nella storia della pittura) dell'innovazione: tutto a fuoco, nitido e preciso (si va dall'incavo del ginocchio destro di Chloë Grace Moretz a John Malkovich seduto in poltrona a guardarla come fosse un pollo arrosto in bikini), e nient'e null'altro sotto controllo. 

 

[Clare Quilty + Humbert Humbert all'opera senza Humbert Humbert e Charlotte Haze nei paraggi.]

 

Ottimo è il montaggio non convenzionale dello stesso Louis C.K. [ovviamente autore anche della sceneggiatura - basata s'un suo soggetto scritto in coppia con Vernon Chatman (“South Park”, “Louie”, “Horace and Pete”) -, in cui addolcisce, ammorbidisce, stempera e piega ad altri fini castrandone il climax la barzelletta peggiore di sempre (“Start the car. Seriously!”) di Ricky Gervais by “Out of England”] che, sfruttando la continuità spinta, la rende paradossalmente anti-realistica, generando una falsa imperfezione ch'è pura bellezza. Musiche di Robert Miller e Zachary Seman, pienamente in parte, in perfetta sintonia col girato e contribuenti a ricostruire un mondo "passato", "altro", "eterno", ch'è l'oggi. 

 

[L'amorale recede dal suo ritratto e la morale prende il sopravvento: l'ordine costituito è ristabilito.] 

 

Il film, sottilmente e perversamente ironico, grondante commozione (la cura e la caratterizzazione dei personaggi si fregia di una lucidità e coerenza invidiabili) cinica, forse dona solo una vera, “crassa” risata: la capoccia del protagonista che compare ad un certo punto durante il rinfresco del party post cerimonia degli Emmy Award al quale s'è imbucato, sbucando da dietro un divanetto da bar occupato dal suo non-ex migliore amico e dal suo non-ex mito e mentore.

* * * * ¼

Note.
• Edie Falco ("the Sopranos" e "Nurse Jackie"), e #iostoconedie:
http://www.vulture.com/2018/03/edie-falco-interview.html 
• Tig Notaro ("One Mississippi") :
https://www.newyorker.com/magazine/2017/10/09/the-heartbreak-comedy-of-one-mississippi 
• "I Love You, Daddy" (e gli altri) :
- https://www.newyorker.com/culture/cultural-comment/reacting-to-the-louis-ck-revelations
- https://www.newyorker.com/culture/cultural-comment/i-love-you-daddy-louis-cks-cancelled-movie-reeks-of-impunity

A quelli che a questo punto s'aspettano - per una ragione o per l'altra - una citazione da Lewis Carroll, Vladimir Nabokov (in vece di H.H.), Woody Allen (Manhattan, Husbands and Wives, DeConstructing Harry, WhatEver Works sono le pellicole che più collidono e collimano con “I Love You, Daddy”), Roman Polanski, Indro Montanelli o Balthus, pigliatevelo in culo e beccatevi uno skianto di Roberto “Freak” Antoni, anzi due:

 

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