Non troppo diversamente da come ci siamo immedesimati, sino alle lacrime, in un cavallo antropomorfo di dubbia morale e alterna gloria, ci ritroviamo inevitabilmente a sovrapporre e confrontare le nostre esperienze familiari con le vicissitudini del pur peculiare, e assai precisamente descritto nella sua appartenenza culturale e religiosa, nucleo degli Schwartz-Cooper, per tutti semplicemente Schwooper, famiglia ebrea californiana composta da padre, madre, tre figli (il serioso Avi, la vulcanica Shira e il piccolo e strambo Yoshi) e vari amici, partner e cugini a complemento. E qui sta il primo grande talento di Raphael Bob-Waksberg, creatore del capolavoro BoJack Horseman: trovare l’universale - qualcosa di inesorabilmente, tragicomicamente umano e condivisibile - nel minuzioso particolare dei microcosmi a cui dà vita.

Nella vagamente autobiografica Long Story Short (riguardo all’influenza della cultura ebraica sul suo lavoro, Bob-Waksberg afferma: «È come chiedere a un pesce quanto lo influenza stare nell’acqua»), già rinnovata per una seconda annata, lo showrunner ritrova temi e crucci delle sue precedenti magnifiche serie animate (oltre a BoJack, Undone, creata con Kate Purdy per Prime Video): il fallimento, il senso di colpa, la sindrome dell’impostore tipica dei millennial (l’autore è classe 1984), i legami familiari che, prima di mostrare il loro tessuto d’amore e rispetto, devono essere bonificati da incrostazioni di ansia, aspettative malriposte, rimorsi e paura dell’abbandono. Come in Undone, una delle chiavi della serie è la percezione del tempo e il suo andamento non lineare, la paradossale vicinanza di eventi remoti rispetto all’opacità del presente; se là era una questione di fantascienza e viaggi nel tempo, in Long Story Short si tratta di puro, e raffinato, escamotage narrativo.

I dieci episodi della stagione, infatti, saltano liberamente da un anno all’altro, dal 1959 fino al 2022, costruendo meccanismi di semina & raccolta complessi e a tratti commoventi, che talvolta impiegano diversi episodi prima di svelare l’origine di un personaggio o di un tormentone familiare, e che costruiscono struggenti ellissi intorno a lutti insostenibili. Balzando, senza ordine cronologico, dagli anni 90 all’era pandemica (la serie è, per inciso, anche una delle migliori raffigurazioni di quel tempo del COVID-19 che pare già rimosso dall’audiovisivo se non dalla nostra memoria), Bob-Waksberg ha la possibilità di mostrarci i tre fratelli Schwooper come bambini e come adulti nel medesimo episodio, tracciando con mano sicura i fili dei traumi, dei desideri e delle paure che li rendono, trentenni o quarantenni, ancora così simili ai ragazzini che furono, in una impossibile eppure efficace sintesi tra I Simpson e Jonathan Franzen. Parlare, con affetto e con dubbio, con scetticismo eppure con fede, della religione e della cultura ebraica non è missione da poco, nel nostro contemporaneo fatto di ideologie che diventano hashtag sui social, ma Bob-Waksberg ammanta tutto di un’onestà disarmante, raccontando la famiglia (ebrea o non ebrea che sia) come il primo luogo dove cercare, per citare il suo bel libro, qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata.
La serie tv
Long Story Short
Commedia - USA 2025 - durata 26’
Titolo originale: Long Story Short
Creato da: Raphael Bob-Waksberg
Con Lisa Edelstein, Paul Reiser, Michaela Dietz, Ben Feldman, Dave Franco, Abbi Jacobson
in streaming: su Netflix Netflix Basic Ads
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