Una giornata nella vita di 3 ragazzi delle banlieu francesi ci rivela la doppia faccia di un’Europea che ancora deve rendere conto alle estreme conseguenze del colonialismo e della ghettizzazione razziale.

Il restauro de La Haine di Matthieu Kassovitz ci offre la possibilità di recuperare in sala un racconto sulla circolarità di un male che continua ad autofagocitarsi, ad assumere nuove forme, in una contaminazione di estetiche, culture e immagini che danno ai giovani l’illusione di una possibile fuga da una realtà cruda e senza via di scampo.

Kassovitz si fa strada tra la violenza delle periferie e la diffidenza del mondo borghese, in un mondo di giovani che vivono di icone americane e di modelli di violenza, mentre il resto del mondo accetta una violenza sistematica destinata ad esplodere tra le mani della società francese.

Vincitore del Prix de la mise en scéne al 48esimo festival del cinema di Cannes, l’opera del regista francese diventa subito fenomeno di culto, segnando l’immaginario degli anni 90’ e polarizzando l’opinione pubblica.

Piani-sequenza, carrellate, inquadrature sghembe e panoramiche della vita parigina sono solo alcuni ingredienti di una messa in scena con cui alla sua prima opera Kassovitz impone il proprio sguardo in un panorama cinematografico francese che riscopre l’importanza della denuncia sociale, ritraendo con rabbia e attualità la violenza della polizia ed eventi ispirati a reali fatti di cronaca nera.

Nelle 24 ore che separano l’inizio dalla fatalista conclusione della storia dei 3 protagonisti, l’unica certezza che ha lo spettatore è quella di star assistendo a una lenta e ineluttabile caduta verso l’abisso, di cui possiamo attendere solo la sua prevedibile ma significativa conclusione che i protagonisti cercano di evitare. Perché il vero problema per loro non è la caduta, ma l’atterraggio.