L'espressione "Teatro filmato", applicata ad un film, ha generalmente una forte connotazione negativa: si intende una pellicola in cui il regista ha fatto uno scarso utilizzo delle risorse del linguaggio cinematografico, in cui si è limitato ad una resa letterale di una pièce teatrale, senza tradurla nel linguaggio del cinema (montaggio, movimenti di macchina, zoom, angolazioni della macchina da presa, costruzione prospettica dell'inquadratura attraverso la profondità di campo ecc.) A teatro, si sa, il punto di vista dello spettatore sulla rappresentazione rimane quello "assegnato": lo spettatore non può avere un primo piano degli attori che si muovono sul palco, dunque sarà lui stesso a scegliere che cosa guardare e a privilegiare determinati particolari, significativi ai fini della comprensione dell'opera. Al cinema è il regista stesso a guidarlo all'interno della visione, dunque si presuppone che non possa limitarsi ad una resa visiva corrispondente a quello che lo spettatore guarda a teatro, ma, grazie agli espedienti filmici ricordati poc'anzi, lo conduce all'interno di uno spazio più propriamente cinematografico. Ecco di seguito alcuni film che, nonostante una struttura apparentemente teatrale (ambientazione tutta in interni, presenza di diverse scene fittamente dialogate), grazie al lavoro di regia si trasformano in puro cinema.
Il film è tutto ambientato all'interno di una villa aristocratica dove una donna morente è assistita dalle due sorelle e da una governante, con gli unici esterni girati nel parco della villa stessa. Bergman aggira sapientemente il pericolo della teatralità grazie ad una rigorosa scansione temporale, con un flashback per ogni personaggio, introdotti da dissolvenze rosse, e con un lavoro certosino sull'immagine (straordinaria fotografia a colori di Sven Nykvist con netta prevalenza del colore rosso cupo, colore che per Bergman rappresenta "l'interno dell'anima").
Con Preben Lendorff-Rye, Henrik Malberg, Birgitte Federspiel, Ann Elisabeth Rud
Il film di Dreyer sulla potenza della fede, che smuove le montagne e arriva a vincere la morte, è un adattamento di una pièce teatrale di Kaj Munk, ma può essere frainteso come esemplare di "teatro filmato" solo da chi non conosce realmente il linguaggio del cinema. In realtà, la costruzione del film è squisitamente cinematografica, grazie soprattutto ai rigorosi movimenti di macchina che esplorano con lentezza lo spazio della fattoria dove vivono i protagonisti, contribuendo a creare una tensione ipnotica che si placa nella celeberrima scena della Resurrezione.
Adattamento del celebre dramma di Tennessee Williams che spopolò a Broadway, diretto da Elia Kazan, che aveva curato la regia anche dell'edizione teatrale. Tutto ambientato in un unico set che funge un appartamento di New Orleans, il film si allontana dai moduli del teatro filmato grazie al dinamismo sfrenato della macchina da presa di Kazan, che avvolge i personaggi con carrellate e panoramiche perfettamente adatte al mezzo cinematografico, e grazie alla modernità della recitazione degli attori, in particolare un Brando carismatico e pieno di sensualità e una Leigh perfetta nella sua (reale) fragilità psichica.
Interamente realizzato all’interno di un set in un teatro di posa dove le case e le strade della cittadina che dà il titolo sono disegnate col gesso sul pavimento, “Dogville” è un esempio di teatro filmato, ma dichiarato ed esplicito ad ogni inquadratura, con un netto rifiuto del realismo della rappresentazione e una presa di posizione stilistica che si situa esattamente agli antipodi dei principi adottati dal regista ai tempi del “Dogma”. Eppure, nonostante questa palese tendenza all’astrazione e la volontà di mischiare le risorse del linguaggio cinematografico a quelle del teatro e della letteratura ( il regista ha parlato di “cinema fusionale”), il film riesce a coinvolgere ugualmente lo spettatore, a comunicargli emozioni e a farlo rispecchiare in un universo simbolico da cui trasuda una visione del mondo disperata e pessimista.
L'incontro fra una casalinga e madre di famiglia simpatizzante del regime fascista e un vicino di casa dissidente e omosessuale destinato al confino, proprio nella "giornata particolare" in cui avvenne l'incontro a Roma fra Benito Mussolini e Adolf Hitler. Tutto il film è ambientato in un appartamento di un caseggiato romano, con qualche uscita su una terrazza: Ettore Scola adotta uno stile perfettamente classico rispettando le unità Aristoteliche di tempo, luogo e azione, che accresce l'efficacia nello studio dei personaggi e delle loro dinamiche, grazie anche a dialoghi ben calibrati e perfettamente credibili.
Infine, l'ambizioso film di Joe Wright, che tenta di ridisegnare il concetto stesso di "teatralità" al cinema. Basandosi su una sceneggiatura di Tom Stoppard, Wright opta per una stilizzazione di tipo teatrale che ci fa assistere a molte scene come se fossero ambientate su un immaginario palcoscenico (fra cui l'esempio più clamoroso è la sequenza della corsa di cavalli in cui Vronsky rimane ferito), e che risulta decisiva nel garantire alla pellicola un godimento visivo superiore alla media, rinforzato dalla larghezza di mezzi a disposizione e dalla sontuosità dei costumi e dell'apparato scenografico. All'inizio il film sembra costruito quasi esclusivamente sull'artificio della rappresentazione teatrale, ricordando per certi versi quanto fece Baz Luhrmann in "Moulin rouge", ma col procedere del dramma le dimensioni teatrale e cinematografica si confondono sapientemente, poichè non mancano sequenze ambientate in esterni reali, e nella parte finale lo stile sembra rinunciare a questo genere di stravaganze per concentrarsi soprattutto sulla tragedia incombente della sfortunata Anna.
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