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Le città antropofaghe di Shiniya Tsukamoto
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Le città antropofaghe di Shiniya Tsukamoto

Negli anni '60 in Europa si cercò di tratteggiare uno scheletro concettuale che costituisse l'impianto programmatico di base per una sorta di 'poetica della dissociazione', così da mettere in scena, in chiave critica, metaforica o più spesso allegorico-surrealista, alcuni dei tratti più significativi dell'impatto che l'industrializzazione, la deriva tecnocratica e l'urbanizzazione arrembante potevano avere sulla psiche umana. Pensiamo ad alcune opere di autori come Polansky, Godard, Pasolini, Petri, ma anche a certi esperimenti warholiani. Oggi questa attitudine è pienamente incarnata da alcuni importanti cineasti orientali, Shiniya Tsukamoto su tutti. Il suo è, fondamentalmente, un cinema del disagio, della solitudine e dell' alienazione suburbana. In ciò si dimostra profondamente dissimile da quel David Cronenberg a cui moltissimi osservatori lo hanno, talvolta a ragione, accostato: Tsukamoto è cantore, romantico ma disilluso, della Solitudine più pura: solitudine al cospetto degli 'altri' ma anche, disperatamente, di Se Stessi. Una solitudine allo specchio, riflessa nel pozzo stesso in cui lentamente annega ('Gemini'), laddove le ossessioni primarie di Cronenberg, il 'contagio', la visione epidemica dei rapporti interpersonali, sessuali o fraterni che siano, presuppongono probabilmente l'esatto contrario di ciò che Tsukamoto è solito evocare: in Cronenberg al centro della Messa(in-scena)Finita è quasi sempre un nudo Contatto tra entità (dis)simili, la 'Trasmissione' (sia essa di parassiti - in 'shivers' e 'rabid' - di messaggi criptati - in 'videodrome' - telepatica - in 'inseparabili' e 'la zona morta' - o di impulsi spinali, come in 'crash' ed 'existenz') è insomma il leit-motiv - compulsivo - della rappresentazione d'un'interrelazionalità 'sui generis', per quanto deviata, filtrata o patologica. Tsukamoto dal canto suo non può che partire da un assunto primario, che è poi alla base di tutta la sua poetica: la Città, modernamente intesa, fagocita le esistenze individuali dei propri abitanti, diluendole in un Tutto indistinto e magmatico, frullandone i contorni e le asperità fisiche in una crema fangosa, a tratti putrescente, e annichilendone le velleità ideali, le pulsioni affettive, la 'spiritualità'. La Città-Mostro di Tsukamoto è una Tokio glaciale e desertica (in 'Tokio fist'), meccanizzata e labirintica (in 'Tetsuo'), fradicia ed illuminata al neon (in 'a snake of june'), sudicia e lacrimante (in 'bullet ballet'), ma comunque, costantemente e disperatamente, ostile. Ecco forse perchè "non esiste né amore né odio a Tokyo, esiste indifferenza, violentissima indifferenza" (opin. di David Cronenberg, ibidem), ed è proprio da questa indifferente ostilità meccanizzata che tutti i gesti dei protagonisti traggono, forzatamente, ispirazione. Tsukamoto si diverte a pedinare i suoi antieroi sopravviventi tra i recessi più umidi e bui della Città antropofaga, "tra le sue mura, i suoi grattaceli, le sue strade, [...] i suoi anfratti in cui imprigiona l'uomo, incapace d'essere" (opin. di Diego, ibidem), d'essere e d'esser-Sè... Eccolo dunque l' 'uomo', la pedina sperduta sulla scacchiera, a sublimare la propria incoscienza di sè in una sorta di angosciosa recita di assertività, fatta allo specchio ('Tokio fist'; 'Gemini'). La superficie vetrosa ne riflette la rabbia soffocata, il dolore... ma l'immagine che l'uomo vede sorridergli non è quella del proprio volto. E' Altro-da-Sè. E Shiniya l'entomologo osserva puntiglioso e distaccato. Dolente certo, ma quasi mai compartecipe. "Tokyo Fist segna la fine [...] dell’uomo in ambito asetticamente metropolitano, e segna l’inizio di un nuovo modellamento degli attori, un'evoluzione primordiale, verso l’auto repressione, verso la costretta manifestazione di una sessualità nascosta, verso l’apologia dei vinti, non più dei vincitori" (opin. di David Cronenberg, ibidem). Qui come nel successivo 'Gemini' "il tema della metamorfosi si esplica quasi nel suo contrario" (opin. di Sonatine, ibidem), smussando i confini dipinti tra la mutazione corporale, lo smarrimento d'una identità 'sociale', d'un codice attendibile di riconoscimento (in primis di se stessi, dunque di auto-riconoscimento) e la realizzazione estrema, somaticamente tangibile, del più tipico meccanismo d'alienazione tecnocratica di derivazione marxiana. In quest'ottica "l'analisi cancerogena della boxe, del pugno, del sangue, della carne" (opin. di David Cronenberg, ibidem) è perfettamente funzionale, nel metodico progetto d'autopsia relazionale portato avanti da Tsukamoto, alla rappresentazione biologica e quasi iconografica dei traumi della modernità; d'una atrofia comunicativa riflessa ma non sempre adeguatamente riflettuta, della graduale perdita di controllo dell'essere umano al cospetto d'un bolide di neon e cemento, di suoni e gas, lanciato a velocità supersonica nelle autostrade spinali che collegano i nostri centri nervosi agli organi vitali. Blocco totale del traffico. Prossimo bollettino sulla viabilità a data da destinarsi. Ovvero ad un Destino da datarsi. Basta rileggere la frase allo specchio, e sorridere.

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