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Pietà

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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AndreaVenuti

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La recensione su Pietà

di AndreaVenuti
9 stelle

Pietà è un film sud-coreano del 2012, scritto, diretto e prodotto da Kim Ki Duk.

L'autore coreano si è aggiudicato il Leone d'oro alla 69° Mostra Cinematografica di Venezia.

 

Sinossi: Kang-do è un trentenne sbandato che lavora per un usuraio. Il suo compito è riscuotere del denaro prestato a persone disgraziate, abbandonati dallo società.

Il giovane ha carta bianca sul lavoro ed i suoi metodi, brutali e disumani, prevedono di torturare il povero sventurato mascherando il tutto da incidente sul lavoro, in modo tale da recuperare i soldi dell'assicurazione. Un giorno Kang-do incontra una donna, tale Jang Mi-seon, che afferma di essera sua madre. L'affetto di una persona cara spinge il ragazzo ad una sorta di redenzione ma il passato non tarda a presentare il conto con gli interessi...

Tra i massimi autori del suo paese, Kim Ki-duk dopo due esperimenti assai personali quali Arirang ed Amen con Pietà ritorna al lungometraggio "classico" più in forma che mai, proponendo la sua consueta polisemia semantica già a partire dal titolo.

 

Ad una prima lettura superficiale potremmo dire che Kim Ki-duk  si sia concentrato essenzialmente su di una perversa ed inedita storia di vendetta, inserendosi di petto in un filone estremamente significativo del recente cinema coreano; pensiamo alla Trilogia della Vendetta di Park Chan-wook (Old BoyMr. VendettaLady Vendetta) oppure I Saw The Devil di Kim Ji-woon o The Chaser di Na Hong-jin, tuttavia Kim Ki-duk è un autore che opera al di fuori di ogni schema produttivo ed infatti la vendetta è solo un pretesto, l'ennesimo escamotage narrativo che gli permette in realtà di rappresentare le sue ossessioni e tematiche.

Il diciottesimo film di Kim Ki-duk propone una netta struttura circolare in quanto si apre e si chiude con il suicidio di un personaggio, leitmotiv ricorrente nella filmografia del regista da L'Isola fino al recente The Net.

Il suicido nella poetica del regista è probabilmente l'unica arma dell'uomo affichè riesca a liberarsi da una situazione opprimente alla quale è impossibile resistere.

Questo atto estremo è solamente uno dei tanti elementi presenti nel film che scandiscono ormai da anni lo stile del regista, dunque ritroveremo ad esempio la simbiosi tra due poli opposti come vita/morte; pensiamo al glaciale abbraccio tra i due protagonisti (più un terzo seggetto) verso la fine dell'opera.

Uno degli aspetti più rilevanti del film (e non solo) è una particolare forma di comunicazione attuata dal protagonista tramite il linguaggio del corpo spesso associato ad atti erotici.

In quasi tutti i film del regista i personaggi parlano pochissimo, una sorta di autodifesa verso un mondo che li ha maltrattati più e più volte e non fa eccezione il nostro sadico Kang-do il quale utilizza il proprio corpo come strumento di comunicazione; nella seconda sequenza del film, vedremo (fuori campo d'impronta) Kang-do mastrurbarsi tuttavia il giovane non prova assolutamente piacere bensì è quasi un urlo di dolore e attraverso il gesto è possibile comprendere la sofferenza interiore del giovane.

Kang-do è un reietto della società, abbandonato persino dai suoi genitori e la violenza è una sorta di strada da perseguire poichè lui punisce, a suo dire, persone irresponsabili che si sono indebitate senza pensare alle conseguenze; metafora dell'abbandono dei suoi genitori.

Tuttavia Kang-do non è l'unico emarginato del film, anzi tutti i soggetti in scena sono persone in piena difficolta che faticano a sopravvivere, a tal proposito emblematico l'ambiente urbano circostante alquanto deplorevole e decadente; il tutto è collocato in una zona malfamata di Seul, sobborgo dove lo stesso regista ha vissuto (qualche anno) da giovane.

Il regista propone anche un'inconsueta riflessione sul denaro, forza motrice di ogni aspetto del mondo dall'amore all'odio passando alla vendetta e la morte; lo stesso protagonista si domanderà più volte cosa sia il denaro.

Kim Ki-duk inoltre servendosi di una breve scambio di battute introduce una problematica seria riguardante molte megalopoli asiatiche, ossia la riqualificazione di aree periferiche con i residenti che si vedono costretti ad abbandonare per pochi spiccioli le loro case /attività.

 

Valida anche la regia dove ad uno stile basilare ma funzionale si evideniza un peculiare uso del fuori campo soprattutto nelle scene di violenza.

Kim Ki-duk invece che mostrarci atti brutali, preferisce concentrarsi sulle reazioni di dolore e sofferenza di personaggi che assistono impotenti al ferimento di persone a loro care.

 

Il regista in alcune fugaci situazioni ricorre altresì alla macchina a mano, utile a trasmetterci una sensazione di inquietudine e smarrimento. Infine ritroviamo l'uso di alcuni simboli, in particolare modo associazioni fra animali ed esseri umani; in Pietà assume un ruolo di rilievo il coniglio, che in qualche modo anticipa la fine di uno dei protagonisti. 

Una delle massime vette del regista; un film che parte da un genere molto consolidato e man mano vira su lidi assai personali, mantenendo sempre alta l'attenzione dello spettatore nonostante un certo rigore espressivo (prevalenza di macchina fissa e campi medi e lunghi).

Da vedere assolutamente.

 

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