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Diario di un ladro di Shinjuko

Regia di Nagisa Oshima vedi scheda film

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La recensione su Diario di un ladro di Shinjuko

di spopola
8 stelle

Nel percorso artistico di Oshima, questo è un titolo particolarmente importante anche per l’evoluzione del suo linguaggio, poiché evidenzia già la sorprendente aspirazione del regista a cimentarsi con un cinema di costruzione molto più libera e “audace” rispetto a ciò che aveva realizzato fino a quel momento. E’ certamente un cinema in formazione e in “divenire”,  non ancora del tutto depurato da  troppo insistite metafore ed auliche ricognizioni, ma già ambiziosamente e potentemente “disturbante”, magnifico anticipatore cioè della sua grandezza futura, pur se ancora non  pienamente  compiuto nelle sue sorprendenti potenzialità espressive che fa comunque intravedere prepotenti.
Ha il merito anche di permetterci di fare una ricognizione conoscitiva di quella che è stata la cultura del mondo giovanile del Giappone negli anni crucialmente e formativamente fondamentali intorno al 1968, che in tutto il mondo hanno avuto un impatto basilare, comunque la si voglia pensare, per la forte accelerazione verso una emancipazione di vita e di conoscenze svincolata dai legami dogmatici  di un ancestrale passato pieno di tradizioni millenarie, ormai superate.
I materiali e i riferimenti che Oshima utilizza in questa opera, sono abbastanza eterogenei: se il tema centrale intorno al quale ruota la pellicola è il legame e la commistione fra la repressione sessuale e la violenza arbitraria del potere, gli ingredienti della rappresentazione (per narrarci attraverso la storia di Birdey, un singolarissimo “ladro” che opera nelle librerie e quella di Umeko, la ragazza che lo accompagna nelle sue avventure, proprio le istanze e gli ideali di un movimento studentesco in fermento e particolarmente attivo anche in quella nazione), hanno ascendenze disparate che si riflettono un poco persino nella struttura formale della messa in scena,  e che risentono dell’influenza di differenti tenenze artistiche e culturali, oltre che di varie correnti di pensiero (gli scritti di Jean Genet, il teatro di Juro Kara, Bertolt Brecht e la sua poetica,  tanto per citare ciò che con maggiore evidenza salta agli occhi). 
E’ un connubio un po’ sinuoso di sorprendente coinvolgimento emotivo, che dona  però al film un fascino tutto particolare di sorprendente attualità, nonostante gli anni trascorsi e le mutate condizioni sociopolitiche che rendono probabilmente adesso meno inquietanti gli interrogativi sul sesso che la pellicola pone in evidenza primaria (e che fossero considerati di eccessivo e pericoloso impatto,  lo dimostra il fatto che l’edizione  italiana alla quale mi riferisco - che è poi quella che è circolata a suo tempo nelle nostre sale – è stata amputata con pesanti ed evidentissimi tagli dovuti proprio alla non digerita accettazione della scabrosità tematica da parte del nostro ottuso sistema censorio, evidentemente “impaurito” più che dalla forza un po’ trasgressiva di alcune situazioni,  proprio dai  concetti espressi in toto da un’opera che si appoggia già a partire dallo stile, su un ordine narrativo interno tutt’altro che tradizionale, rifuggendo così  da giustificazioni psicologiche ed esornativi nessi drammatici per asciugare la materia da possibili compiacimenti formali e riportarsi all’essenza primaria di concetti espressi).
Ed ecco allora che attorno ai due grandi tabù della tradizione giapponese (che come si sa sono proprio quelli della “violenza” e del “sesso”)  sui quali il regista ritornerà poi in seguito più volte, Oshima intesse una rete di situazioni  in cui i nessi logici sono spesso sostituiti (o alterati) da libere invenzioni anche “associative” delle immagini che differenziano notevolmente il risultato complessivo anche da L’impiccagione, che è il titolo immediatamente precedente, con il quale mantiene comunque alcune dirette e palesi analogie che riguardano principalmente l’impostazione  generale, ancora una volta di derivazione teatrale dell’impianto, e soprattutto i rimandi a Brecht (vedi il “coro” dei teatranti, il rumore della cinepresa che riprende le azioni, e l’ostentata esasperazione della finzione scenico-filmica, qui esplicitata nell’uso del rosso della vernice-sangue nelle sequenze a colori), anche se poi il metodo brechtiano rimane totalmente disancorato – e qui con ancora maggiore evidenza rispetto a L’impiccagione stessa – proprio da quella che dovrebbe connotarsi invece come una delle caratteristiche fondamentali di tale teorizzazione,  che si estrinseca prioritariamente nella semplicità-popolarità dell’approccio.
E nel caso precipuo, è proprio il concetto espresso dalla frase non c’è libertà se viene negata quella sessuale, che costituisce in pratica la chiave di volta per una lettura comprensibilmente coerente dell’intera opera, al di là dei possibili schematismi ideologici, poiché il superamento di quella che vorrei definire come “la fase teorica preliminare” del suo percorso creativo (che coincide da un lato con le seduzioni dell’industria culturale e del sistema, e si identifica invece dall’altro, in una interpretazione passiva e fortemente edonistica proprio degli strumenti definibili appunto di “liberazione”, come potrebbero essere il cinema e i libri) avviene provocatoriamente attraverso l’esplicitazione visiva, impudica e sfacciata (causa non  secondaria immagino proprio delle noie con la nostra censura) del sangue mestruale, il sangue maledetto sette volte della tradizione giapponese, e del conseguente amplesso liberatorio che proprio su questo sangue si sviluppa e prende corpo, mentre contemporaneamente, fuori, nel contesto sociale, scoppia la rivolta. La metafora espressa si chiarisce così definitivamente in tutta la sua potenza, poichè quel rapporto carnale  che è una “liberazione sessuale” vera e propria, diventa sopratuttto l’espressione di una “liberazione politica”, e senz’altro in questo Oshima è stato fortemente influenzato  anche  da L’angelo sterminatore di Buñuel, e dal suo “messaggio”, essendo troppo forti ed evidenti le analogie “concettuali” che si rilevano, per essere soltanto casuali (o almeno a me fa piacere immaginare questa “eccellente” contaminazione se non altro di pensiero, fra questi due grandi maestri della settima arte).

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