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Personal Velocity - Il momento giusto

Regia di Rebecca Miller vedi scheda film

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La recensione su Personal Velocity - Il momento giusto

di Aquilant
8 stelle

Tratte dall’omonimo libro di racconti della stessa Rebecca Miller, tre vibranti storie assistite dalla tecnologia del digitale aprono alcuni laceranti squarci su un mondo al femminile tutto teso al raggiungimento della propria identità violata tra dolorose rimembranze nell'ambito di un autentico teorema del dolore e frammenti di ricerca interiore filtrati con sensibilità e misura, abbozzati dall’autrice in uno stile commosso che risente di un fresco sapore di estemporaneità grazie anche alle riprese rigorosamente effettuate con telecamera a mano. E balza in grande evidenza lo zelo autoriale profuso in una dovizia di primissimi piani che pongono maggiormente in risalto le deprecabili incidenze del peso emotivo e del senso di responsabilità derivanti da una visione condizionante dell’essere donna sancita da una serie di devianti ed arcaici luoghi comuni ad uso e consumo esclusivo di un’irriducibile letteratura maschilista molto dura a perire.
Appare evidente l‘intensa partecipazione istintiva della Miller nel profondere solidarietà e complicità a grappoli nei confronti di queste figure femminili colte a vagare a tastoni tra le brutture della vita alla ricerca di una sofferta identità frammentata e dispersa in mille rivoli di consapevolezza incosciente. Presenze dominate da una fisicità talvolta condizionante od inibente, provviste di una sensibilità fuori del comune ma da lungo tempo prive di un adeguato mix di determinazione e volontà emancipatrice in grado di indicare la giusta direzione da intraprendere. Decise a ribaltare l’incidenza di un’incombente, presunta fragilità per ribadire a sé stesse ed al mondo il diritto di scelte forse sofferte e dolorose, in decisa sintonia con un personale vento di cambiamento chiamato a soffiare senza posa nel loro preciso senso di marcia. Un cenno a parte meritano le soluzioni ellittiche adottate dalla Miller, che sceglie di incanalare in un’originale direzione spazio-temporale gli eventi meno salienti, ma necessari ai fini di un organico andamento della narrazione, tramite la proiezione di singoli fotogrammi esplicitamente riassuntivi a fungere da vero e proprio ponte di raccordo, coadiuvati da un’opportuna voce narrante.
Storie di donne senza radici, dall’infanzia lacerata da precoci disgregazioni familiari che lasciano un segno indelebile e condizionano ogni minima scelta di vita, portando ad un andirivieni di contraddizioni e d’insoddisfazioni che nel caso della volatile Greta (una stimolante e disinvolta Parker Posey), la protagonista del secondo episodio, arrivano a compromettere una parvenza di equilibrio destinata a crollare come un castello di carte alla minima avversità. Nella vicenda dell’esordio invece il tragico deja-vu di un’infanzia traviata colta nel suo ripercuotersi in modo analogo nell’età adulta crea in Delia (una compassata Kyra Sedgwick che appare come la personificazione stessa del disincanto) ferite insanabili che la portano a ridisegnare ex novo le sue coordinate di vita con tutte le incognite del caso, temprandola a quel cinismo ed a quell’indifferenza talvolta necessari per destreggiarsi alla meglio sul palcoscenico del mondo.
Ma è nel terzo avvincente episodio che la tensione si fa palpabile e la caratterizzazione dei personaggi assume decisamente una connotazione di febbrile drammaticità. La carica disturbante della pellicola perviene al suo apice di pari passo con la marcata estremizzazione dello sguardo dell’autrice al di sopra di una realtà contingente ridotta a mera finzione, dove perfino la morte è portata al massimo grado d’indifferenza, pronta a colpire alla cieca in un breve battito di ciglia. Paola, la figura femminile di turno, è caratterizzata con commovente e lirica intensità, in un contesto soggetto a modalità di riprese dichiaratamente post DOGMAtiche in cui vengono scandagliate ancora più a fondo le capacità di reazione umane di fronte ai chiaroscuri della vita ed a momenti di avversità che sembrano non avere mai fine. E l’accorata complicità della Miller, ben evidenziata nei due primi episodi, finisce per trasformarsi in un vero e proprio coinvolgimento lirico che riveste l’intreccio di una vibrante poesia interiore diretta al massimo grado d’intensità fino a pervenire all’inaspettato epilogo che prelude ad una significante scelta in favore della vita da parte della protagonista, una straordinaria Fairuza Balk talmente intenta a macerarsi sull’onda di una struggente immedesimazione con il suo personaggio opportunamente depurato da sgradevoli intenti consolatori, al punto da fornire una prova ad altissimo tasso di coinvolgimento emozionale, di fronte alla quale sarebbe arduo rimanere insensibili.
Nel tentativo di ricostruire le vite più o meno spezzate delle sue eroine, l’autrice assegna ad ognuna di esse un momento giusto, una sorta di “personal velocity” come da titolo, destinata a coincidere con un vero e proprio punto di svolta irto di difficoltà ma in grado di districarle da una condizione latente di stallo. E viene lasciato alla fantasia individuale degli spettatori il compito di colmare i vuoti apparenti lasciati dagli epiloghi apparentemente irrisolti. Ma in realtà sono proprio i rispettivi finali aperti a fornire un reale senso di compiutezza all'assieme ed a preludere immancabilmente ad un nuovo riassetto vitale in grado di spazzare via del tutto le maligne radici dei traumi e dei rovesci dell’infanzia. Ed a tentare di restituire al rapporto di coppia la sua giusta identità, senza ulteriori ondeggiamenti tra il vuoto frustrante dell’indifferenza ed il sanguinolento aroma della soperchieria.

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