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Il pataffio

Regia di Francesco Lagi vedi scheda film

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La recensione su Il pataffio

di mck
8 stelle

“Scusate… Ho magnato.”

 

Quando avevamo fame.

 

Per volere (grazia e benevolenza) del Serenissimo Rege di Monte Cacchione ecco che il Preclaro Berlocchio di Cagalanza, accasatosi in giocondissime nozze con Donna Bernarda e accolto dai villani capeggiati da Migone di Scaracchio, prende titolo di Marconte e possesso del Feudo con relativo Castello di Tripalle divenendone Signore.

 

Francesco Lagi, classe 1977, regista e sceneggiatore ubiquo ai generi (il segmento “Balondòr” del film collettivo “4-4-2 – il Gioco Più Bello del Mondo”, la dramedy “Missione di Pace”, il documentario “Zigulì”, la serie skammica “Summertime” e il teatro filmato - locuzione da intendersi in senso neutro - di “Quasi Natale”), scrive (traendola dall’omonimo romanzo del 1978 di Luigi Malerba, vero cognome Bonardi, parmigiano in orbita Gruppo 63, classe 1927), con qualche inciampo attutito da recitazione e atmosfera, e dirige la sua opera più riuscita, che tanto poco c’entra con la mitopoiesi de “l’Armata Brancaleone” (1966; Monicelli, Age & Scarpelli, Gassman, Volonté, Pisacane, Salerno), e/ma più col canone tracciato da "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno" [dal medioevo al rinascimento/barocco (Giulio Cesare Croce e Adriano Banchieri), da G.Simonelli e M.Amendola & R.Maccari a Monicelli, Benvenuti, Cecchi D'Amico, De Bernardi & Tognazzi, Sordi, Nichetti, Arena] quanto poco c’entra col recente dittico dumasiano di Veronesi, situandosi a mezzavia di forma/stile e contenuto/sostanza (ché intanto in tutti questi frangenti di frattempo è cambiato il mondo, rimanendo l'istesso).

 


Lino Musella (“Gomorra - la Serie”, “Liberi Tutti”, “Favolacce”, “Qui Rido Io”, “È Stata la Mano di Dio”, “l’Ombra del Giorno”, “Princess”) è – proprio nel senso superlativo del termine – fenomenale.

 

E attorno a lui, altrettanto straordinari, si muovono e ruotano l’antagonista positivo in classicheggiante naturalezza di Valerio Mastandrea (Migone, il Rivoluzionario), quella maschera assoluta di Giorgio Tirabassi (BelCapo), che fa ridere in un modo tutto suo, peculiare, preciso (un sempiterno Glauco Benetti, uber alles, ad maiora e pánta rheî), un meravigliosamente “abbruttito” (in zona Salvatore / Ron Perlman de “il Nome della Rosa”) Alessandro Gassmann (Frato Capuccio), nelle vesti di un fratacchione buono per ogni occasione e per tutte le stagioni, la figlia (e il padre) e la sposa (che porta seco una deriva cannibalica scampata per un pelo/soffio) Viviana Cangiano (molto brava, e anche lei in orbita Martone/Sorrentino).

 

E poi Vincenzo Nemolato & Giovanni Ludeno (gli armigeri capintesta Ulfredo e Manfredo), Pina Di Gennaro (la moglie di Migone), Daria Deflorian (la Vecchia del Castellazzo Rebello), Emilio De Marchi (la Guardia del Castellazzo Rebello), Martinus Tocchi (Baldassarre)…

 

Senza scordarsi di Balthazar, EO (Ih-Oh) e di tutti gli altri (per i non somari) Equus africanus asinus.

 


Girato nel pietrame cespugliato del frusinate (con uno sconfinamento nell’aquilano), fotografato da Diego Romero (sodale collaboratore di Roberto Minervini: “Low Tide”, “Stop the Pounding Heart”, “Louisiana (the Other Side)”, “What You Gonna Do When the Worlds on Fire?”), montato da Stefano Cravero (sodale collaboratore di Susanna Nicchiarelli: “Cosmonauta”, “la Scoperta dell’Alba”, “Nico,1988”, “Miss Marx”, “Chiara”), scenografato da Daniele Frabetti, costumato da Mariano Tufano, musicato da Stefano Bollani (le parole di "Culi Culagni" e del "Salmo di San Ghirigoro" sono tratte direttamente dal romanzo di Luigi Malerba), prodotto da Colorado, Rai Cinema e Vivo Film con fondi regionali, statali e continentali (e manco du’ spicci pe’ ‘no ponte levatoio ce stavano?!) e distribuito da 01, principia in medias res e termina in corsa, verso – per dirla con Gadda – la realtà sistematrice (che in tutta evidenza gli era già ben passata e ripassata sopra, coi suoi tempi d’inopinata inesorabilità, sin dall’inizio del film, come un rullo compressore che ne decreta la fine in farsi) ed il proprio (passo dopo passo: greco, latino, romanzo/volgare) epitáphios → epitaphius → epitaphium → epitaffio.

E sì, alla fame non v’è mai fine, ma per il momento, “Cut!”, il nostro spataffiaccoso Pataffio, il nostro tronfio Sborone, il nostro pomposo Ganassa, il nostro molesto Bauscia, insomma, il Pirla, corre.

“Scusate… Ho magnato.” 

* * * ¾ 7.5

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Neri uccellacci volano bassi, fanno larghi giri sopra al corteo militare come se sentissero odore di carogna. I soldati oppressi dalla fiacca e dal caldo fanno un passo avanti e due di traverso, ma il corteo va avanti lo stesso, non si sa come, si snoda lento come un serpentone nella piana fra i campi di granturchetto e le vigne alberate e le piantate di ulivo. Cavalli e cavalieri e pedoni e carri sono imbiancati di polvere fina, così che si confondono con il bianco della strada e scompariscono quasi alla vista. La campagna intorno pare spopolata come per passaggio di pestilenza o altra calamità e invece sono gli uomini armati, spavento della terra, che allontanano le genti anche quando malamente si reggono sulle gambe per la fiacca del viaggio.
Il cielo è annuvolato a tratti da turbe di moscherini molestissimi che si buttano a succhiare gli occhi ai cavalli e ai soldati, già mezzo cecati per la polvere. È per via di questo cecamento generale da polvere e da moscherini che il corteo del marconte Berlocchio de Cagalanza si è sperso nella piana del Tevere. A questa ora, che sarebbe la terza dopo mezzodì, ancora non è arrivato alla vista del castello di Tripalle de cuius Berlocchio deve prendere possessione come bene dotale avuto da Bernarda, dilettissima figlia del re di Montecacchione. Dentro la carrozza con la corona inargentata dipinta sugli sportelli, stanno per l’appunto Berlocchio e Bernarda rinserrati, oppresso Berlocchio dal ponderoso volume della consorte strabordante e anfanante per la calura. Davanti alla carrozza marciano a passo sghembo i soldatagli intitolati per l’occasione del corteo nuziale trombetti, tamburini, vessilliferi, sbandieratori, balestrieri, alabardieri, roncolieri, valletti e scudieri pur senza avere dotazione di trombe tamburi vessilli bandiere balestre alabarde roncole e altri arnesi da corteo, ma i tutti sbiancati e uguagliati nella polvere.
Insieme a Bernarda per moglie e al feudo di Tripalle, Berlocchio ha avuto dal re di Montecacchione il titolo di marconte che sarebbe come dire una via di mezzo fra marchese e conte. Questo titolo è legato al feudo e castello medesimo, che però non si riesce a trovare essendo il corteo sperso nella piana del Tevere senza sapere dove e donde.
Come la strada si sbiforca a dritta e a manca e il castello di Tripalle ancora non si vede, i due armigeri capintesta Ulfredo e Manfredo si fermano e di conseguenza si ferma tutto il corteo compresa la carrozza del marconte Berlocchio e della onoratissima consorte.
Dice Ulfredo:
«Se svolta dellà?»
Risponde Manfredo:
«Io svoltarei deqquà».
«Deqquà se retrova il fiume».
«Il fiume se retrova dellà».
«Allora se decida su paro e disparo».
«Paro!»
«Disparo!»
Ulfredo e Manfredo tirano giù le mani, ma i diti non si piegano dentro i guantoni di ferro e non si possono contare il paro e il disparo.

Luigi Malerba - “il Pataffio” - 1978 (Quodlibet, 2015)      

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