Regia di Nicolas Boone vedi scheda film
Ritratto di un microcosmo di miseria, crimine, e disarmante fantasia.
Che fare se le storie si intrecciano. Se succede anche qui, nel quartiere più povero e malfamato di Bogotà. Anche il disagio conosce una coerenza interna, riesce a trovare i suoi fili conduttori, rispondendo orgoglioso a chi lo accusa di essere soltanto puro caos. Sono i collegamenti offerti dalla strada, con la loro logica banale, a chiudere un cerchio infernale intorno agli abitanti di Las Cruces: accostare giovani e vecchi, innocenza e crimine, musica da discoteca e colpi di pistola è il modo in cui la vita degli ultimi si avvolge su se stessa, gelosa della sua strisciante perversione, mostrando autosufficienza, cercando di tenere lontano ogni potenziale intruso. L’emarginazione sa compiere da sola i propri virtuosi giri di valzer, producendosi in acrobazie che fanno rabbrividire per l’audacia dei cambi di scenario, da una festa danzante ad un omicidio a sangue freddo, dallo squallore del furto di una bicicletta alla gioia di una manciata di dolciumi. Questo cortometraggio fa dell’autoreferenzialità di un mondo appartato la fonte di una vertiginosa densità narrativa, in cui l’azione si muove rapida e sinuosa, nell’angusto labirinto dei vicoli, delle scalinate, degli angoli dimenticati in cui l’esistenza si annida silenziosa, nell’attesa del prossimo minaccioso giro di giostra. Dove mancano il lavoro, il progresso, il vero divertimento, non c’è requie per nessuno, ed ogni cosa si muove, sapendo che ogni passo, ogni gesto è in grado di cambiare il corso degli eventi. In quel luogo di tutti e di nessuno, incontrarsi, fosse anche per caso, equivale a rinnovare una complicità di fondo: una tacita intesa che perpetua una spirale di violenza e solidarietà, di trasgressione e gentilezza, in cui l’umanità, nelle retrovie di una globalizzazione fatta di regole inventate, rimane fedele ai principi ancestrali della civiltà. La consegna universale è sopravvivere, per sé e per gli altri, nel seno di una comunità che non può essere totalmente pacifica né del tutto coesa, eppure si regge sul fatto di condividere una grande lotta collettiva, in cui è indispensabile soffrire e perdonare. La segreta forza di quel popolo negletto è una partecipazione consapevole, benché primitiva e priva di progetto, al gigantesco gioco che impone di resistere e sorridere, di farsi del male senza serbare rancore. L’apparente tristezza esprime un’incantevole rassegnazione: un’arte romantica, benché senza disciplina, un modo basilare, eppure profondamente sentito, di contemplare da lontano l’irraggiungibile, cruda magia dei propri sogni.
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