Pubblicato nel 1976 e immediato bestseller, Intervista col vampiro di Anne Rice è un romanzo spartiacque, e basta una veloce carrellata storica di succhiasangue cinematografici a rilevarne l’influenza: è Rice a portare al mainstream l’idea di un vampiro insieme mostruoso e umano troppo umano, tormentato nelle sue passioni e pulsioni larger than life, allo stesso tempo romantico (in senso filosofico) e grandguignolesco. La sua linfa (ri)dà vita all’archetipo, a estremi lontanissimi tra loro come il Dracula coppoliano e la saga di Twilight, e già l’adattamento anni 90 di Neil Jordan, tra camp e sublime, è un successo, anche divistico: i più belli di tutti, Tom Cruise (in uno dei rari ruoli negativi) e Brad Pitt, incarnano in modo esatto l’apice di desiderabilità di questo specifico modello vampiresco.

Le prime due stagioni della trasposizione seriale - messe in cantiere con la collaborazione diretta di Rice, quand’era ancora in vita - adattano le due parti dell’omonimo romanzo (una terza annata è confermata, ma si re-intitolerà Il vampiro Lestat, come il volume successivo delle Cronache dei vampiri), restando più o meno fedeli al canovaccio di trama - stretta attorno alla relazione struggente e distruttiva tra il potente e manipolatorio Lestat e il neo-vampiro, da lui creato, Louis, con la succhiasangue bambina Claudia a completare una “famiglia” decisamente disfunzionale - ma con alcune modifiche sostanziose, e proficue: la storia comincia sempre a New Orleans, ma a inizio Novecento (e non a fine Settecento in una piantagione) e la timeline slitta di conseguenza (i fatti del Théatre des Vampires, al centro della stagione 2, si svolgono nella Parigi del secondo Dopoguerra), Louis è creolo e gestisce un bordello, Claudia è nera e adolescente, la cornice dell’intervista è ambientata ai giorni nostri, in un attico di Dubai, e il ruolo del giornalista Daniel Molloy - qui un anziano e venerato premio Pulitzer, che aveva già provato a intervistare Louis nei drogatissimi Seventies di San Francisco - è ampliato, e incide in profondità sull’intreccio.

Tutte scelte in grado di rivivificare il plot anche per chi lo conosce già a memoria, e di amplificarne le linee portanti: l’identità razziale di Louis e Claudia ne esplicita la condizione inamovibile di outsider, l’integrazione impossibile, e apre nuove sfumature nel rapporto di sottomissione all’aristocratico bianco Lestat; la presenza di Molloy invita a riflettere sulle fallacie della memoria e sulle dinamiche dell’affabulazione. A vincere la scommessa è un cast azzeccatissimo, dal Jacob Anderson di Il trono di spade (Louis) a Eric Bogosian (Molloy), su cui svetta il Lestat di Sam Reid, magnetico e incendiario, presenza scenica divorante e gran voce ipnotica (scegliete la lingua originale). Il formato seriale si scopre poi in perfetta simbiosi con gli aspetti più gustosi della saga: ha tempo di esplorare le minuzie (a volte esilaranti) della quotidianità vampiresca, ma soprattutto di abbandonarsi a un mélo senza confini, sensualissimo e ottenebrante, finalmente restituito alla sua queerness originaria, gotico e pulp, e pure gore nei momenti giusti, in una cavalcata travolgente tra amori e rancori millenari. Da assaporare, fino all’ultima goccia, e poi chiederne ancora.

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