C’è una domanda semplice che accende l’immaginario del film Good Boy: perché i cani fissano gli angoli vuoti, abbaiano “al nulla”, evitano certe stanze? Qui la risposta non è una gag, ma un assunto narrativo: il cane vede ciò che agli umani sfugge. Il film, diretto da Ben Leonberg, costruisce un racconto di case infestate e legami di dipendenza spostando l’asse dello sguardo sul migliore amico dell’uomo, Indy, che diventa il perno percettivo dell’intera vicenda.


Il progetto, presentato da Independent Film Company e Shudder, nasce già con un logline limpido e programmatico: niente animali parlanti, solo paura filtrata da un punto di vista non umano.

Quello che il cane sa

Indy, il protagonista del film Good Boy, e il suo umano, Todd, lasciano la città per una vecchia casa di famiglia in campagna. Appena entrati, si chiariscono due coordinate: Indy diffida del luogo, Todd è il suo mondo. Il cane intercetta presenze che noi non vediamo, avverte segnali inquieti, come “messaggi” da un cane morto da tempo, e si imbatte in echi della morte del precedente inquilino.


Mentre Todd scivola sotto l’influenza di una forza oscura che abita l’abitazione, spetta a Indy ingaggiare la sua battaglia: difendere l’amico e contrastare la malevolenza che sembra volerlo trascinare oltre la soglia della vita. È una storia di assedio, ma anche di dedizione, raccontata in chiave paranormale attraverso sensi e istinti di chi, da sempre, protegge il branco.

Sotto la pelliccia, un’idea

Il regista Ben Leonberg dichiara esplicitamente l’origine “what if” del film Good Boy, sulla scia di un metodo caro a Stephen King: e se il solo a sapere che la casa è infestata fosse il cane di famiglia?


Da questo seme discende una regola d’oro della messa in scena: la prospettiva è di Indy, i meccanismi narrativi sono guidati da odori, silenzi, micro-movimenti, abitudini canine. Per tre anni, il set si è piegato ai tempi e ai capricci dell’attore a quattro zampe: riprese su set chiusi, performance “suggerite” con rumori e croccantini, una regia che fa della costrizione un motore creativo. Leonberg, che firma anche la fotografia, sposa un’estetica “terrena”, luoghi vissuti e recitazioni naturali: la realtà prima del soprannaturale, così quando il soprannaturale arriva, fa più presa.

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Good Boy (2025) scena

Indy e il suo mondo

Indy non parla e non “recita” come un umano. Proprio per questo diventa un protagonista radicale: ogni scena del film Good Boy è costruita perché il pubblico legga gesti minimi, esitazioni, scarti di attenzione. La sua missione è una: proteggere Todd. È un cinema della prossimità, in cui la fedeltà non è slogan ma motore d’azione: l’eroismo nasce dal comportamento, non dalla parola. Indy interpreta… se stesso: un retriever di mezza età, 15 chili di riflessi e rituali, alla sua prima prova in lungo dopo un cortometraggio omonimo.


Todd è il proprietario che decide l’isolamento: abbandona la città e si rifugia nella casa di famiglia, portando con sé una quota di stanchezza e di resa. Il paranormale lo aggredisce proprio dove è più vulnerabile. Il legame con Indy, saldo e totalizzante, è insieme ancora di salvezza e possibile dipendenza: senza quel cane, Todd naufraga; grazie a quel cane, forse può resistere. Il ruolo è affidato a Shane Jensen, attore e filmmaker con esperienza nella scena indipendente newyorkese.


Con Vera entra una presenza capace di riannodare i fili con l’esterno. Il personaggio non “romanticizza” l’orrore, lo fronteggia portando in dote memoria, ascolto, dubbio: è il necessario attrito umano rispetto alla piana immediatezza percettiva del cane. Arielle Friedman, al debutto in lungo con Good Boy (dopo un percorso tra danza e corti), le presta concretezza e fisicità.


Il nonno, interpretato da Larry Fessenden, è corpo e storia: dentro di lui scorre un cinema indipendente che ha fatto dell’horror una lingua espressiva, e qui la sua presenza riverbera come memoria elastica del genere. Funziona da raccordo tra passato della casa e presente dell’assedio, tra superstizione e esperienza.


Richard porta, infine, in campo il “prima” che continua a sanguinare nel “dopo”: il passato non resta confinato, ma filtra negli oggetti, nei corridoi, nelle abitudini. È l’ombra concreta che permette alla casa di smettere di essere solo scenografia e di farsi organismo. Il ruolo è affidato a Stuart Rudin.

Le ossa del racconto

Il film Good Boy parla di fedeltà senza dichiararla. Indy ama Todd e basta: lo si vede dal modo in cui pattuglia, attende, si posiziona tra l’amico e la minaccia. La fedeltà qui è prassi: non retorica, ma geografia del corpo. Da questa concretezza nasce una delle domande sottili del film: quanto la dedizione può diventare dipendenza reciproca?


Il “vecchio” casale non fornisce solo atmosfera: reagisce, espelle, trattiene. Gli spazi sono scelti e filmati per essere riconoscibili, quasi banali, così da rendere il soprannaturale più credibile. Il quotidiano, prima; l’eccezionale, dopo. La regia punta a un realismo di materiali e di luci che permette al fantasma di passare come distorsione di ciò che conosciamo.


Indy è un dispositivo narrativo di pura percezione: odora, ascolta, “legge” vibrazioni. Il film lavora sull’idea che l’orrore sia innanzitutto un problema di soglia percettiva. Ciò che l’umano rimuove o razionalizza, l’animale lo registra. Da qui discende una grammatica di inquadrature e tempi che assecondano lo sguardo rasoterra, le pause, gli scarti.


Nel solco delle fratture post-pandemiche, dall’epidemia di solitudine all’erosione della fiducia, Good Boy ambienta la sua storia nella scelta di ritiro di un uomo qualunque. L’isolamento non è l’effetto del fantasma, ma la premessa che lo rende efficace. Il film ascolta un clima sociale in cui le definizioni di famiglia e prossimità cambiano, e misura il peso di un legame uomo–animale come presidio minimo contro il collasso.

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Good Boy (2025) Indy

Oltre la specie

Raccontare dal punto di vista del cane costringe a spogliarsi dell’antropocentrismo. Gli eventi non sono spiegati, sono percepiti. Questo spostamento non è solo una trovata formale: ridefinisce la gerarchia emotiva in scena e, per riflesso, interroga il nostro modo di attribuire valore e intenzioni agli animali che vivono con noi.


Per ottenere la maggiore naturalezza, la produzione ha adattato tutto a Indy: set chiusi per non distrarlo, “indicazioni” impartite con suoni e snack, riprese che nascono dalla disponibilità dell’attore non umano. Leonberg abbraccia la logica del vincolo come risorsa: l’horror, ricorda il regista, prospera più sull’ingegno che sul budget. È un cinema artigianale che si affida a spazi reali, performance non enfatiche, dettagli sensoriali.

Una favola nera a misura di legame

Good Boy è un film di fantasmi che fa un passo di lato: mette al centro un’alleanza quotidiana e la usa come lente per leggere paura, isolamento, persistenza del passato. Non chiede di credere ai cani che parlano, ma di accettare che possano capire prima di noi. Se il terrore funziona meglio quando somiglia al vero, qui la verità ha il profilo caldo di un compagno che veglia. E il cinema, restando aderente alle piccole cose, riesce a farci sentire l’attrito dell’invisibile.


Presentato all’SXSW Festival 2025, uscirà nelle sale americane il 2 ottobre. Al momento, nessun distributore italiano ne ha annunciato l’acquisto ma il tam tam intorno all’opera, già fenomeno di culto, è così alto che dubitiamo possa diventare un oggetto smarrito.


Disclaimer

Questo testo è stato redatto sulla base di informazioni e note di regia condivise dalla produzione, supportate dalla visione di interviste e materiali promozionali, ma senza avere visto il film. In alcun modo, quindi, questa presentazione di Good Boy può essere intesa come una recensione o una critica cinematografica.

Indy
Good Boy (2025) Indy

Autore

Redazione

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Filmografia

locandina Good Boy

Good Boy

Horror - USA 2025 - durata 72’

Titolo originale: Good Boy

Regia: Ben Leonberg

Con Larry Fessenden, Stuart Rudin, Anya Krawcheck, Shane Jensen, Max, Arielle Friedman