Si gioca ancora

(attenzione, spoiler!)

Era inevitabile, e in fondo prevedibile, che la sulfurea perfezione di Squid Game, in origine una miniserie autoconclusiva in geniale (e astuto) equilibrio tra satira del turbocapitalismo e orgasmo da cosplayer, quest’ultimo per tanto pubblico più importante della prima, si annacquasse quando, dopo l’enorme successo globale, si è deciso di andare avanti.

Ora, alla terza stagione (che però pare più la seconda parte della seconda, in ossequio alle nuove strategie distributive di Netflix), i nodi arrivano al pettine: non ci si può che ripetere, variando ove possibile (ma non troppo) sfide e scenografie, il gioco delle parti tra i nababbi voyeur (poco più che macchiette) e concorrenti disperati dice poco di nuovo, anche se la possibilità per i secondi di decidere di uscire dal gioco li rende non meno spregevoli dei primi nel momento in cui non la colgono per avidità; tutta la linea narrativa di quelli che da fuori cercano l’isola teatro degli Squid Game non lascia il segno, il confronto tra Gi-hun e il Front Man è piuttosto scontato.

C’è più equilibrio tra le componenti della serie che nella (prima parte della) seconda stagione, è vero, e il creatore padre-padrone Hwang Dong-hyuk, del quale il Front Man è con sempre più evidenza un riflesso distorto, azzecca diverse dinamiche relazionali, soprattutto quelle tra genitori e figli, qui centrali. Ma, alla fine, più che lo straziante sacrificio-monito di Gi-hun, resta impresso il finalissimo con Cate Blanchett reclutatrice americana a significare altri Squid Game in giro per il mondo, l’espansione Usa del franchise (con David Fincher?), la resa totale al turbocapitalismo che si prende in giro per la gioia dei fan cosplayer. Avanti il prossimo.

La serie tv