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Il mito della prateria non fa più proseliti
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Il mito della prateria non fa più proseliti

L’ottima play del grande BobtheHeath ha messo in evidenza, con l’amaro retrogusto del rimpianto, l’inattualità di un “mito” che ha rappresentato per quasi un secolo una delle colonne portanti della settima arte, regalandoci, forse più di ogni altro genere, una miriade di capolavori assoluti, e contribuendo nel contempo a mantenere attivo l’immaginario “pensante” di intere generazioni che si sono “nutrite” di quelle figure, rivivendo e reinterpretando in prima persona (con la fantasia) molte di quelle travolgenti avventure che avevano spesso, al di là della spettacolarizzazione dell’evento, anche il valore di un approccio “moralmente” ineccepibile alle problematiche esistenziali della vita e la “capacità” di insegnare a distinguere il bene dal male. Condivido totalmente l’analisi esaustiva di Roberto e le considerazioni che riguardano le ragioni di questa irreparabile perdita, nonostante i “sussulti" che ogni tanto tentano di dimostrare che il moribondo è ancora in vita e gli incerti segnali di miglioramento che ci illudiamo di poter percepire. Qualche sporadico (ma ormai lontano) successo di cassetta che poteva ipotizzare una (im)possibile rinascita non può infatti trarre in inganno: il western è purtroppo un prodotto, “commercialmente parlando”, obsoleto che non “rispecchia più” ciò che i nostri figli “desiderano”: le loro fantasie se così possiamo chiamarle, sono ormai “diversamente orientate” e lo possiamo constatare giornalmente anche dalla semplice analisi di ciò che offre il mercato nel settore dei giochi come appunto sottolinea Bob. E’ forse per questa ragione che il western non riesce più a fare proseliti e a convogliare gli interessi condivisi dalla massa, e che solo la caparbia determinazione di pochi “resistenti” attivi si ostina a riproporre ciclicamente ma ormai (sembra) con inarrestabili è incomprensibili “disastri” al botteghino, nonostante la qualità ancora “eccellente” di molte di queste proposte che hanno tentato il miracolo o che lo ritenteranno nei prossimi mesi, transitando anche sui nostri schermi? Probabilmente le ragioni sono più profonde e vanno ricercate anche nella evoluzione dei tempi e nel diverso approccio tecnologico al “divertimento” (ma qui ci vorrebbe una analisi di tipo sociologico, e il discorso diventerebbe indubbiamente “pesante” e non facilmente sintetizzabile in poche battute). Restiamo allora ancorati alla realtà dell’evidenza e a ciò che dovrebbero rappresentare in questo campo “le speranze” della stagione: per “Quel treno per Yuma”, l’America ha per altro incontrovertibilmente già chiaramente evidenziato il suo “pollice verso” nonostante il cast e gli sforzi economici profusi nella produzione e nel lancio… un risultato così catastrofico che se non riuscirà ad essere in parte ripianato dagli altri mercati, certamente tornerà a scoraggiare a lungo il tentativo di altre incursioni, visto che ormai il cinema è business. Temo per altro che analoga sorte potrebbe toccare anche a “The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford” (che non ho visto e sul quale non posso ovviamente ancora esprimere un giudizio personale, ma ovviamente “mi fido” ciecamente di quelli positivi - nonostante qualche “lungaggine” di troppo che qualcuno ha evidenziato - espressi da autorevoli recensori del sito che hanno avuto l’opportunità di visionarlo a Venezia, o nelle città dove è già passato grazie alle rassegne collegate). Non posso allora che rammaricarmi a mia volta e con fortissima evidenza, per questa “perdita” incolmabile che è anche una rinuncia a “riconoscere il valore didattico” di quelle storie. Sarà perché io, e forse ancor più “radicalmente” di Roberto in ragione della differente “stagione”, sono “cresciuto” e mi sono “formato” al ritmo scandito dalle cavalcate del 7° Cavalleggeri, esaltandomi e soffrendo in attesa di “quell’arrivano i nostri” finale che quasi sempre restituiva la vittoria ai cosiddetti “buoni” di turno, anche quando contraddiceva l’andamento reale della storia. Basta vedere la mia fascia di età per comprendere che la mia infanzia si è sviluppata negli anni immediatamente successivi al termine della seconda guerra mondiale, anni duri, intrisi di una povertà adesso inimmaginabile, che si rifletteva anche sulla oggettiva “mancanza” di giocattoli omologati, sostituiti artigianalmente da ciò che era possibile creare con la fantasia e l’ingegno (carretti deambulanti, utilizzando legno di recupero e dismessi cuscinetti come ruote; cerbottane fatte con le canne di bambù e pirulini di carta, fionde costruite con rami di albero e strisce di camere d’aria di non più utilizzabili tubolari delle biciclette, e via discorrendo). E allora, in questo stato di “miseria” assoluta, quasi sempre i nostri giochi si nutrivano di quelle creatività (non tanto grazie a Tex o al successivo Pecos Bill dei fumetti, perché soprattutto in campagna, era persino difficile accedere alle pubblicazioni rese disponibili dall’editoria, quanto appunto grazie al cinema che invece rimaneva una realtà abbordabile e a basso prezzo per il “recupero domenicale” dell’immaginario, grazie a quelle periferiche sale di terza o quarta visione o alle proiezioni parrocchiali). E poi bastava il racconto di chi aveva avuto la fortuna di assistere alla proiezione per rendere tangibile la percezione all'intero gruppo. Ricordo che immaginavamo persino che laggiù, al di là dell’oceano, forse in un “mondo parallelo” e chissà per quale improbabile magia,esistesse ancora un territorio dove continuavano quegli scontri feroci “fra civiltà” che contrapponevano i barbari indiani alla promessa di un futuro svuluppo in nome di un progresso inoppugnabile, sancito dalle conquiste inarrestabili dei bianchi colonizzatori. Pur parteggiando intimamente per il mito del cow boy indomito, senza macchia e senza paura, giocavamo però molto più frequentemente a “fare gli indiani” perché la scelta era più appagante e consona a restituire il senso dell’avventura (anche sotto il profilo dell’investimento economico). I pochi mezzi a disposizione, rendevano infatti appannaggio di pochi eletti “fortunati” la possibilità di accedere (grazie ai regali nelle calze della Befana) alle pistole giocattolo che riproducevano le colt dello schermo, corredate di quelle “capsule” tuonanti che ci facevano sobbalzare e suscitavano una invidia profonda e pericolosa: gli altri (la maggioranza) dovevano accontentarsi del surrogato dell’indice e del pollice della mano destra e del suono onomatopeico riprodotto con la bocca a simulare lo sparo. E allora giocare agli indiani, permetteva invece di “crearsi” senza soldi, ma grazie al semplice “talento personale”, il proprio armamentario di archi e frecce (di bambù), lungo le rive dei fiumi di vicinato, dove trascorrevamo le lunghe ore del “riposo” dopo la scuola, costruendo simulacri di tende o tentando di scavare nella roccia pericolose caverne che quasi sempre crollavano alle prime avvisaglie della pioggia che rendeva friabile il terreno. E la fantasia poteva così sbizzarrirsi fra “realtà” e immaginazione, spesso con ardita spudoratezza che ci faceva correre seri pericoli adesso inimmaginabili, ma che fortificavano notevolmente la nostra tempra e il carattere: bagni estivi a “caccia” di pesci nelle anse più profonde, razzie nei campi per procurarsi le fascine da bruciare all’accampamento, battute di caccia per scovare animali da preda come lepri o uccelli (ma spesso il bottino era fatto i semplici lucertole) e via discorrendo… E c’erano dei veri e propri fanatismi anche a quei tempi che portavano all’identificazione totale col proprio “mito di riferimento”. Ricordo lo smarrimento rancoroso di un mio compagno di giochi, tale Zinci Renato che ricopriva il “ruolo” di capo della tribù proprio per la sua devozione assoluta agli indiani, quando seppe che la strada del paese sarebbe stata asfaltata, perché così lui, che doveva percorrerla in bicicletta per la sua attività di garzone del droghiere e i corrispondenti impegni di consegna a domicilio, non avrebbe più potuto sobbalzare sul sellino (per altro dolorosamente, visto che non esistevano tute o ammortizzatori) transitando sulle buche sconnesse del selciato che gli facevano immaginare di “essere a cavallo” a percorre i sentieri polverosi della prateria… Un mito che rispecchiava quello che era l’interesse generalizzato e che accomunava “figli e genitori”, riservando sempre e comunque una grossa fetta “prioritaria” di successo anche ai più anonimi B-movie di Cappelloni e Musi rossi. A noi non fregava molto che i pellirosse fossero considerati “cattivi”, barbaramente sadici (forse la cosa persino ci esaltava) perché ci consentiva di “sfogare” a nostra volta i nostri ancestrali istinti “primitivi”. Scoprimmo comunque presto la “differente realtà della storia” (imparando ad identificarci anche “sentimentalmente” con loro), grazie a Delmer Daves e al suo “L’amante indiana” che per la prima volta – almeno per quanto avevo visto io fino a quel momento – metteva in evidenza la positività di quel popolo e rendeva “gradiosamente” valoroso il suo capo carismatico (e Kociss, in virtù anche dei successivi epigoni costituiti dai più insignificanti “Kociss, l’eroe indiano” e “Il figlio di Kociss”, rimase a lungo l’unico e insostituibile eroe del nostro gruppo: il nostro capo ne assunse il nome, Geronimo era il secondo, mentre il ruolo di stregone a me attribuito – a causa della mia gracilità e delle mie “paure” che mi rendevano meno temerario di altri – mi consentì di “scegliermi” il nome di “Mocassino nero” che mi sembrava così intrigante da rendermi orgoglioso per aver trovato un nome così altisonante, proprio perché la mia ignoranza non mi consentiva di "avere conoscenza" di ciò che era davvero il mocassino e potevo cullare l’immaginazione al suono di quel termine inconsueto e sconosciuto che mi faceva “sognare”. Ma sto indecentemente naufragando nella nostalgia del ricordo perdendo il filo prioritario del discorso, divagando pesantemente, e me ne scuso. Volevo infatti con questa play ricordare a mia volta (sottolineandola) l’importanza di questo “genere” ormai a mio avviso definitivamente perduto, ma evitando di richiamare l’attenzione sui “classici” acclarati che sono a questo punto “storia e leggenda” inappellabile e incontrovertibile, e soffermandomi invece su altri piccolissimi “gioielli” ugualmente determinanti per “definire il valore e l’importanza” del western, che includono a loro volta miticizzabili “capolavori assoluti” di geniali creatori “a basso costo", che hanno reso indimenticabile infiammandola, non soltanto la mia infanzia, ma anche gli anni successivi più maturi e consapevoli. Mi spingo infatti nella ricognizione fino agli ultimi anni ‘60 (che coincidono in qualche maniera con l’inizio inarrestabile del declino) con un titolo esemplare e di poco successo che definisce meglio di altri “il mutamento” e la valenza di metafora anche politica che poteva ancora (e forse di più che in passato) essere attribuita all’insieme. Grazie di nuovo caro Roberto per aver sollecitato indirettamente questa mia nostalgica rivisitazione che spero susciti più di un ricordo non solo negli “stagionati” visitatori del sito (sette posizioni sono indubbiamente troppo poche e vorrei ancora ricordare almeno ”L’assedio delle sette frecce”, “L’avamposto degli uomini perduti”, “Il cacciatore di indiani”, “La campana ha suonato”, “La cavalcata dei diavoli rossi”, “Hondo”, “L’imboscata”, “La lancia che uccide”. “La montagna dei sette falchi”, “Wichita”, “Quaranta pistole”, “Sangue sulla luna”, “Notte senza fine” e “La pistola sepolta”) ma anche chi non ha avuto il privilegio (consentitemi di definirla così) di vivere in diretta quella stagione entusiasmante e irripetibile.

Playlist film

Ucciderò Willie Kid

  • Western
  • USA
  • durata 96'

Titolo originale Tell Them Willie Boy Is Here

Regia di Abraham Polonsky

Con Robert Redford, Katharine Ross, Robert Blake, Susan Clark

Ucciderò Willie Kid

Abraham Polonsky-1969: graffiante rientro dopo ventenni di emarginazione maccartista, di un regista che avrebbe potuto dare molto, ma che la stupidità ideologica ha costretto a restare muto e inattuvo per troppo tempo

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