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Il grande orso

Regia di Esben Toft Jacobsen vedi scheda film

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La recensione su Il grande orso

di OGM
8 stelle

I piccoli sognano le cose (dei) grandi. Quelle che, paradossalmente, gli adulti non amano, e delle quali hanno magari paura. Come un orso gigante, grosso come una montagna. Una creatura colossale, i cui peli sono grossi come spazzole per i capelli, e che sul dorso porta un intero bosco di abeti. Quel manto verde  è la copertura con cui si mimetizza dentro la foresta, per sfuggire ad un cacciatore che ha giurato di ucciderlo: si deve vendicare per le morti che l’animale, senza volere, ha causato tra gli abitanti di un paese che era stato per sbaglio costruito sul suo corpo, inerte per il lungo letargo invernale. Jonathan e Sophie, però, sono bambini, vengono dalla città, non sanno nulla di questa storia e sono ancora troppo innocenti per conoscere l’odio. È proprio Sophie, che ha poco più che sei anni, la prima a scoprire che dentro quelle apparenze mostruose si nasconde, in realtà, un cuore immenso ed un animo estremamente gentile. A quel bestione si può voler bene, e si può persino giocare con lui, come con l’orsetto di peluche da cui la piccola non si separa mai. Ma la tenerezza, come in tutte le favole che si rispettino, è solo una chiazza rosata all’interno di un panorama oscuro e violento. Il lieto fine è una dura conquista, realizzata attraverso un’avventurosa lotta che oppone i buoni e i cattivi, o meglio i saggi agli stolti, ovvero i lungimiranti ai miopi. Sophie riesce a vedere più lontano di tutti. Non ha problemi ad accettare per vero ciò che gli altri relegano nel mondo dell’assurdo. Una rana che provoca la pioggia ogni volta che la si preme tra le dita. Un  mastodonte dotato di denti ed artigli a cui piace mangiare caramelle e rincorrere le farfalle. L’incanto naturalistico nasce da questa ingenuità, che non esclude l’impossibile e non dà nulla per scontato, e contemplando la realtà senza pregiudizi si predispone serenamente alla magia. La meraviglia è un fantastico paradosso, che insegna cose inedite e inaspettate facendo leva sulla nostra capacità di lasciarci sorprendere. In questa storia tutto è magnificamente anomalo, dagli alci in miniatura ai merli dotati di ingegno. L’unico essere tristemente normale è l’uomo che coltiva in sé il rancore. È prevedibile nei tratti, e dunque è facile raggirarlo. Il protagonista negativo è la caricatura di un omone rozzo e noioso, che si muove senza particolare destrezza né intelligenza, in un ambiente selvatico in cui da anni vive rinchiuso insieme alla sua cupa ossessione. Cosparge il suolo di trappole  e spara dentro i buchi del suolo, anziché rivolgere lo sguardo al cielo. La sua figura è infinitamente più pesante di quella della sua poderosa preda. È il corpo che cade mentre, intorno a lui, tante altre menti volano alte. Leggere come le ali degli uccelli, le gocce di pioggia, o le foglie che si posano sulla pelle per guarire le ferite. Per l’ennesima volta, il bene trionfa, dopo tanti affanni e senza scorciatoie, con un cataclisma finale che, innocuamente, pone termine all’incubo ripristinando la pace. Anche ne  Il grande orso, come in tutte le fiabe più classiche, il cerchio si chiude su una realtà rinata: la storia torna sui suoi passi, per rimettere a posto le cose e fare crescere chi ha contribuito a cambiarle. La catarsi è il bel tempo che arriva dopo la tempesta. Ed è l’armonia che riappare, dopo essersi scrollata di dosso quell’unico accento stonato che rovinava la melodia.

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