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Vinyan

Regia di Fabrice Du Welz vedi scheda film

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La recensione su Vinyan

di joseba
8 stelle

Phuket (Tailandia), 2005. Sei mesi dopo il terribile tsunami che ha sottratto loro il figlio Joshua, i coniugi francesi Paul e Jeanne Belhmer non si sono ancora ripresi dallo shock. Soprattutto la donna non si arrende all'idea di aver perduto il bambino e continua a nutrire la speranza di ritrovarlo vivo. Durante una serata di beneficenza organizzata da alcuni filantropi europei a favore dell'infanzia locale, viene mostrato un video che documenta le condizioni di assoluta indigenza in cui versano i villaggi della Birmania: all'improvviso Jeanne indovina Joshua nella sagoma di spalle di un bambino che indossa una maglietta rossa. A nulla valgono le ragionevoli riserve di Paul: contrariata dalla rassegnazione del marito e indispettita dalla proposta di un sostegno psicologico, la donna si avventura nella calca di Phuket chiedendo di Thaksin Gao, influente boss legato alle Triadi in grado di assicurare l'arrivo nel villaggio birmano nonostante la chiusura delle frontiere. Per i coniugi Belhmer ha inizio l'odissea alla ricerca del figlio.

Secondo lungometraggio del trentaseienne cineasta belga (classe 1972) Fabrice Du Welz, Vinyan è un horror antropologico di arcana e misterica bellezza, squarciato da abbaglianti lampi visionari e illuminato da una sorda lucentezza primordiale. Se Calvaire (2004) scoperchiava la barbarie maschilista saldamente insediata nel ventre molle dell'Europa utilizzando come piede di porco un corpo nomade (quello di un cantante itinerante sessualmente ambiguo), Vinyan ricorre al corpo femminile per penetrare nelle ferite aperte di una terra (il Sud-est asiatico) vampirizzata dall'Occidente e funestata dal terribile maremoto del dicembre 2004. Un corpo, quello di Jeanne (Emmanuelle Béart), che nel corso del film scioglie progressivamente i vincoli col marito Paul (Rufus Sewell) e con la civiltà occidentale per ricongiungersi al brutale candore della natura, il rimosso per eccellenza.

Du Welz ha affermato di voler capovolgere il principio dei film di fantasmi classici, facendo entrare dei vivi nel mondo dei morti. E in effetti quello di Vinyan è un vero e proprio viaggio in un universo naturale in cui la morte è presenza costante e incombente, cicatrice non ancora rimarginata per tutti i personaggi e ipoteca spirituale che aleggia ininterrottamente sull'intera vicenda. La centralità fisica di Jeanne, entità che nel corso del film si impregna di connotazioni conflittuali, si riallaccia al ruolo polemico e antagonista rivestito dai soggetti femminili nel nuovo horror francese: il corpo della donna è il luogo critico di ripensamento e riconfigurazione dei rapporti di forza su cui si fonda la "civiltà" xenofoba (À l'intérieur), persecutoria (Martyrs) e nazistoide (Frontière(s)) della Francia contemporanea (e non solo). La politicità della Nouvelle Trouille è la politicità del corpo femminile.

"Quando qualcuno ha una brutta morte, lo spirito è completamente disorientato, non sa più cosa fare e dove andare. Lo spirito diventa furioso: si dice che diventa vinyan. (...) La luce è là per guidare vinyan verso la casa dei morti, perché vinyan trovi il riposo. C'è una luce per ogni spirito". Pronunciate a Jeanne da Thaksin Gao (Petch Osathanugrah) su una spiaggia, mentre alcuni indigeni accendono lumi in grossi cilindri di carta che si levano in volo, queste parole illustrano il significato del titolo e al tempo stesso il nucleo semantico profondo del film: restituire senso e prospettiva a una realtà umana devastata dallo tsunami e violentata da un Occidente portatore di sfruttamento, degrado e isterilimento.

Identificato inequivocabilmente con le figure maschili che gestiscono il business umanitario (Matthias, il responsabile dell'organizzazione filantropica di stampo francese), che sguazzano nel sottobosco malavitoso (l'uomo che accompagna i coniugi Belhmer nella prima parte del viaggio e che parla la loro lingua) e che trafficano lucrosamente in vite umane (Thaksin Gao, individuo di melliflua astuzia dai modi sornionamente francesizzati), il parassitismo occidentale è altresi assimilato ad una razionalità tanto ottusa quanto esposta alle aggressioni irrazionali (Paul, imbelle incarnazione di un buon senso incapace di resistere alle radicali pressioni della moglie, proprio come la costruzione in rovina nel cuore della foresta che, nel prefinale, è sventrata da radici di piante e ghermita da rami di alberi).

All'estremo opposto si collocano le figure femminili, sia Kim (Julie Dreyfus), fotografa e assistente di Thaksin Gao, sia soprattutto Jeanne, personaggio che rappresenta quella fertilità liquida (attenzione alla prima inquadratura, in cui emerge letteralmente dall'acqua), libera (a differenza delle donne thailandesi e birmane, costrette alla prostituzione o assoggettate in misteriosi rituali di controllo) e indifferenziata (Jeanne è pronta a riconoscere il suo Joshua in ogni fanciullo) di cui il fantomatico popolo della foresta, composto esclusivamente da bambini e vecchi, ha disperatamente bisogno. E nella voracità del pasto totemico finale, vendetta collettiva dei figli scacciati ("Tu l'hai lasciato partire", rimprovera ripetutamente Jeanne a Paul), si consuma l'ultimo atto di affrancamento dall'autorità maschile e razionalmente colpevolizzante. Finalmente, lordi di sangue e fango, inondati dalla pioggia e dal sole, la donna e i bambini possono abbandonarsi ad un riso liberatorio.

Du Welz gira in stato di grazia permanente, come se ogni scenario naturale e umano fosse insieme un'apparizione e una conferma, una rivelazione e un ritrovamento. Inutile e fuorviante tirare in ballo modelli di riferimento e ispirazioni stilistiche (curiosa coincidenza: Herzog, uno degli autori amati da Du Welz, ha lasciato la Thailandia proprio all'inizio del tournage di Vinyan, dopo aver terminato le riprese di Rescue Dawn): più e meglio che in Calvaire, con una compostezza che mette i brividi, il cineasta belga fa del linguaggio filmico il luogo dello stupore impassibile, assegnando alle soggettive il compito di dischiudere l'inquieta fermezza della natura. Una pellicola lacerata tra la greve terra maschile (non a caso Thaksin Gao verrà sepolto vivo) e la rigenerante acqua femminile (si presti attenzione al finale di gocciolante solarità), ma orgogliosamente ritto sulle proprie gambe, quelle di un belga che, come un etnologo insubordinato, filma un horror fertilmente palingenetico.

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