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Il custode

Regia di Tobe Hooper vedi scheda film

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La recensione su Il custode

di scapigliato
8 stelle

“Il Custode” ovvero “Mortuary” ovvero “Quando l’inferno sarà pieno, i morti... ti entrano in casa!”. Detto così sembra di trovarsi di fronte ad una parodia alla “Slither” o alla “Shaun of Dead”, invece Tobe Hooper, nonostante il solito vecchio ritornello dei detrattori, fa davvero un bel film. Innanzitutto il regista ci introduce in un ambiente vecchio e nuovo allo stesso tempo. Il cimitero, mixato con la camera mortuaria che dopo “Six Feet Under” e altre serie necrofile fa tendenza, era sempre stato quel locus horris utilizzatissimo soprattutto nei primi horror Universal, per poi diventare teatro di scene particolari negli horror a venire. Lasciamo perdere la “prima volta” di Pipino in “Porkis”, ma ricordiamoci della bellissima scena iniziale di “La Notte dei Morti Viventi” di Romero, o anche il bellissimo e allucinato incipit dello stesso Hooper in “Non Aprite Quella Porta”, oppure, sempre in zona allucinazione, una tra le scene finali di “Easy Rider”, oppure quante volte il cimitero è stato teatro di scene chiavi in tanti western e spaghetti western, ma qui può assumero anche un’altra valenza. Un ricordo su tutti, oltre ai film sugli zombies che automaticamente coinvolgono un cimitero, è il capolavoro di Lucio Fulci “Quella Villa Accanto al Cimitero”. L’intrusione quindi in un luogo archetipale, di un nucleo famigliare mutilato della figura paterna è una prerogativa horror secondo la quale l’assenza del capofamiglia deflagra tutte le inquietuduni dei figli e della moglie rimasta senza il principale arpiglio della vita, e in più scatena l’istinto di sopravvivenza davanti al pericolo. Da notare che non c’è una forte figura maschile adulta, con cui si potrebbe ipotizzare una nuova vita sentimentale per la madre, particolare, questo, tipico e ormai stanco di quasi tutti i thriller. Qui invece il grande Tobe Hooper, con il suo solito ghigno autarchico fa dell’intrusione in un vecchio luogo mitico la discesa grottesca nella periferia industriale americana che è anche l’immondizzaio culturale e morale dello stesso paese. Infatti, il secondo ambiente, nuovo stavolta, in cui veniamo introddi fin dall’inizio del film è la periferia di magazzini, ferrovie, capannoni, discariche e degrado provinciale non sempre navigati nel cinema horror, a cui vengono preferite o le assolate cittadine del sud, o i bei paesini ben curati e morigerati di altrettante morigerate famigliole della classe bene. Sembra di vedere in “Mortuary” un film di Ken Loach che si da all’horror. Non è poi banalizzato il taglio sociale, caratterizzato dai personaggi buffi e grotteschi che circondano i protagonisti. In più Hooper riesce a rendere l’atmosfera inquietante di un vero divertissement horror grazie ad accurate inquadrature, una stilizzatissima set decoration, e una gran bella e sulfurea fotografia semi-notturna che fa molto film proletario inglese. Magari il film farà sorridere per il trucco posticcio di qualche morto ritornato in vita, come quello del professore di piano, ma è un trucco erede dell’estetica (e povertà di mezzi) concepita da Hooper come gioco fumettistico e già realizzata per esempio con il vampiro blu di “Salem’s Lot”. Il digitale non è proprio entusiasmante e se ne avesse fatto a meno il film sarebbe stato un moderno manifesto di ritorno al casereccio, nonostante siano in molti oggi ad urlare al ritorno di un horror più “in carne” contro le troppe, soporifere, solite, pallose ghost-story di derivazione “occhi a mandorla”. Oggi infatti i Rob Zombie e i Alexandre Aja di tutto il cinema horror, eredi del Tobe Hooper dei ’70, hanno riconfernato la vera via dell’horror e del perturbante. Perturbante che ritroviamo anche in “Mortuary”. Le connotazioni sessuali, tipo il rapporto a tre e l’omosessualità invisibile di uno dei ragazzi protagonisti, sono inserite sullo sfondo macabro di luoghi, il cimitero e la periferia industriale, che ne cantano il funebre destino. Non è un caso che i tre balordi teppistelli, resuscitati si crede a vita eterna, diano come segnali della loro nuova condizione gli stessi dell’astinenza. Non è un caso che il personaggio omosessuale non sia stato sviluppato più approfonditamente. La dimensione fumettistica a cui attinge il film, rifiuta chiaramente un’introspezione gigantesca dei caratteri, ma allo stesso tempo li tipizza in maniera tale da non farli risultare poi inefficaci ad una lettura trasversale. Tant’è che la mitica zia Rita, padrona del fast food in cui lavora il giovane protagonista, dice di aver un buco nero che va dall’omicidio Kennedy a Regan. L’attacco ad un periodo buio, tra l’altro fecondo per il cinema horror dei ’70 e degli ’80, della recente storia americana non è un’anacronismo ma l’allegoria dell’epoca odierna. Periodi di buio in cui i Bobby Fowler deformi e dimenticati ritornano a colpire i vivi per dar vita ai morti, e il leit-motiv del cinema zombesco ritorna prepotente e inquietante ad avvisarci della brutta fine che stiamo facendo.




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