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La donna sul filo del rasoio

Regia di Yasujiro Ozu vedi scheda film

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La recensione su La donna sul filo del rasoio

di OGM
8 stelle

Yasujiro Ozu è il regista del divenire. Delle metamorfosi interiori che passano attraverso la crisi dei rapporti interpersonali. Lo dimostra anche questo film risalente all’epoca del muto, un noir di stampo dichiaratamente americano, ricco di espliciti riferimenti alla cultura d’oltreoceano: la sala da biliardo, il circolo pugilistico (che porta il nome nipponico di Toa, però si chiama boxing club), la coppia criminale, l’inseguimento sui tetti, le sigarette Lucky Strike, il cibo in scatola, il negozio di dischi della Victor Records (con il famoso marchio del cane che ascolta, dal grammofono,  la “voce del padrone”). Il genere made in USA è imitato, e contemporaneamente sdrammatizzato, grazie all’inserimento di spunti ironici o giocosi. Il tono è, a tratti, insolitamente scanzonato, altre volte è composto o addirittura irrigidito in una teatrale goffaggine.  Del resto, la durezza del gangster movie non potrebbe fare presa sulla superficie liscia e candida dell’umanità di Ozu: questa è formata da individui che possono essere soggetti a sbandamenti, ma non sono mai completamente malvagi, tant’è vero che si mantengono costantemente ad un passo dalla redenzione. La donna sul filo del rasoio è la giovane Yukiko, di professione dattilografa, corteggiata dal figlio del principale, ma compagna di Joji, un emergente boss della malavita.  Quando quest’ultimo si innamora di Kazuko, la classica brava ragazza giapponese, Yukiko cade inizialmente preda di una furiosa gelosia, ma poi si ravvede, e convince Joji a cambiare vita, proponendogli una svolta tipicamente borghese, con lei nel ruolo di casalinga e moglie premurosa. La storia – e non potrebbe essere altrimenti - si interseca con la dimensione domestica e familiare, sia nella configurazione dei personaggi (Kazuko è la sorella di Hiroshi, un neo-affiliato al clan), sia nelle ambientazioni, spesso racchiuse tra quattro pareti, illuminate dai lampadari, affacciate sulle finestre, ingombre di mobili e suppellettili.  L’azione è trattenuta in parte dalla ristrettezza e dalla frammentazione degli spazi, in parte dall’intervento preponderante della parola, e il dramma è sfiorato con la delicatezza tipica di uno stile disciplinato dalla cura della dialettica e dalla scrupolosa attenzione per l’aspetto morale. Questo film è, nel contempo, rafforzato e ingentilito dalla componente etica, che ammorbidisce i toni, a volte in maniera  innaturale: la prudenza, sostenuta, come di consueto, dalle figure femminili, è l’elemento dissonante che mantiene il racconto criminale nel solco dell’umanesimo di Ozu. I personaggi, con i loro comportamenti e le loro scelte, rimangono saldamente al centro dell’obiettivo, come oggetti di studio ed esempi di vita vissuta. L’azione è il contesto, e non la sostanza del discorso: questo non è il tradizionale film sulla yakuza, bensì un film in cui l’appartenenza alla yakuza è solo un momento, marginale e modificabile, di una ben più complessa esperienza esistenziale. Citando il simbolismo utilizzato nel film, si può dire che qui la mafia non è vista come un modo di essere, ma soltanto come una sorta di filo di lana, in cui si può rimanere impigliati, ma da cui facilmente ci si può liberare; trasformando, magari, il gomitolo in qualcosa di più positivo e fruttuoso, che sia davvero in grado di dare la felicità.

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