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El conde

Regia di Pablo Larrain vedi scheda film

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La recensione su El conde

di Peppe Comune
8 stelle

Prima di rovesciare militarmente il governo democraticamente eletto di Salvador Allende ed instaurare la sua dittatura sanguinaria, il generale Augusto Pinochet (Jaime Vadell) ha vagato per il mondo per oltre due secoli. Come vampiro votato all’immortalità, ha vissuto in Francia durante la Rivoluzione francese conosciuto con il nome di Claude Pinoche. Ha bevuto il sangue che gocciolava dalla ghigliottina e ha assistito alle efferate lotte per il potere. In Cile arriva solo nel 1935, quando si arruola nell'esercito e fa carriera fino a diventare generale. Ma dopo più di 250 anni di vita, Augusto Pinochet è stanco di vivere, e dopo la morte fasulla inscenata per il mondo ed essersi rintanato in una sperduta fattoria lontano da tutto e da tutti, vorrebbe veramente farla finita. Questo mette in allerta Fedor (Alfredo Castro), il suo fedele maggiordomo russo che il generale ha morso trasformando anche lui in un vampiro, e preoccupa non poco la moglie Lucia (Gloria Munchmeyer), che ambisce all’eterna giovinezza facendosi mordere dal marito. I cinque figli, invece, sono solo interessati alle sue ricchezze. Ma devono scoprire dove sono nascoste e perciò arrivano alla fattoria insieme a Carmen (Paula Luchsinger), una suora a cui i suoi superiori affidano il compito di fare il doppio gioco : ammaliare il Conte e recuperare le sue ingenti ricchezze per conto della chiesa cattolica. 

 

Jaime Vadell

El conde (2023): Jaime Vadell

 

Un Augusto Pinochet nelle vesti di un vampiro che ha attraversato più di duecento anni di storia e che ancora sopravvive alla fine del suo potere dittatoriale, solo un regista come Pablo Larrain poteva concepirlo e metterlo al centro di una narrazione filmica come successo con "El Conde". E non solo perché è cileno e già in diversi film si è confrontato con gli anni della dittatura di Pinochet, ma soprattutto perché, nel farlo, ha sempre trasfigurato la faccia del potere dispotico lasciandola fuori campo ed ha sempre attinto ad una narrazione “simbolica” per indurre a riflettere più in generale sulla natura di qualsiasi esercizio dittatoriale del potere. Detto altrimenti, Larrain ha sempre preferito mettere al centro della storia quegli aspetti cancrenosi che rendono immune la generalità del tessuto sociale dall'effettiva comprensione del male. Aspetti che hanno trovato una casa prediletta durante la dittatura del generale, ma che sono universalmente ascrivibili a qualsiasi dittatura, di ogni tempo e di ogni luogo.  

E’ quindi una questione di stile, ma per quanto “El Conde” si ponga ad un livello di originalità stilistica abbastanza marcato rispetto ad altri film dell’autore cileno, sussistono degli elementi sotterranei che, nell’accomunare questo film ad altri, lo pongono in una sorta di posizione mediana sia rispetto a quelli che trattano della storia del Cile durante il periodo della dittatura puntando l’attenzione sui quei caratteri che si mostrano abbastanza predisposti a subirne il fascino malefico (“Tony Manero” “Post Mortem), sia rispetto a quelli indirizzati dallo scopo di fare delle biografie molto sui generis il modo per riflettere sul valore della storia su chi ne deve sopportare il peso (“Jackie” , “Neruda” e “Spencer”). 

Ma questa specie di gioco di assonanze, vale la pena sottolineare che il film che per atmosfera poetica più rimanda a “El Conde” è “Il club”. Infatti, come i quattro preti mandati in una desolata zona di mare per espiare i loro peccati sotto lo sguardo indagatore di una donna religiosa, così il Conte e la sua famiglia se ne stanno lontani dal mondo abitato confessando le loro malefatte ad una suora (anch’essa appositamente mandata dalla chiesa). In entrambi i film, l'idea portante sembra essere quella di un mondo che non è all’altezza di capire la natura delle loro colpe. Chiaramente, ne “El Conde” questo assunto è portato fino all’eccesso, vestito degli ingredienti utili per far oscillare il film, tra una danza macabra inscenata in nome e per conto della disumana attitudine al male, e un pamphlet pensato per satireggiare sulla mediocrità al potere. 

A contendere la scena al Conte, fino a rendersi assolutamente complementari nella centralità del suo ruolo di Principe del male, sono Fedor e Carmen. Il primo (il fidato e sempre bravo Alfredo Castro) è il maggiordomo di Pinochet, una sorta di cerimoniere che sovraintende fedele alla sua conservazione e ambisce a seguirne in eterno la scia. La seconda è una suora che si configura come una sorta di Angelo vendicatore venuto a smascherare nella banalità del male tutto ciò che lo alimenta e lo perpetua. Il saccheggio, la truffa, la tortura, gli spargimenti di sangue, lo sfruttamento, l'egoismo, l'avidità, tutti aspetti dell’agire umano perfettamente incarnati dalla famiglia Pinochet, tutte cose che diventano consuetudine se protette dall’immunità del potere. 

Il tono che percorre il film è grottesco, funzionale per riflettere sulla verosimiglianza degli effetti cancrenosi prodotti dalla dittatura attraverso l’inverosimiglianza della messinscena. Pablo Larrain sembra volersi divertire nell’usare la metafora del vampirismo per leggere sotto un’ottica alquanto originale, tanto una delle pagine più drammatiche della storia del suo paese, quanto l’esercizio del potere dispotico in quanto tale. La dittatura percorre il tempo e gli Stati per vampirizzare lo spirito di un popolo fino a renderlo vittima passiva della sua sede di potere. Augusto Pinochet è solo uno dei tanti e l’autore cileno ne fa il paradigma di un esercizio del potere che nel sangue versato dai più deboli trae la forza per conservarsi nel tempo e sopravvivere alla sua stessa improduttività.

“Il cuore di un vampiro è il più efficace per rigenerare quello di un altro vampiro”, dice sul finale del film la madre del Conte. Parole che in una maniera molto netta ci dicono che il male si autorigenera dallo stesso male che alimenta. Il Conte ha attraversato più di due secoli di storia prima di diventare l’assassino del governo democraticamente eletto di Salvador Allende : generato dal male che lo ha preceduto e conservatosi in quello che lo rimarrà immortale.  

Ecco, quello che funziona di “El Conde” è questo gestire il simbolismo equilibrando il tragico e l’ironico. Magari in qualche occasione questo equilibrio deraglia verso soluzioni narrative che possono lasciare un po’ perplessi (come la comparsa di Margaret Thatcher che si presenta come la madre di Claudio Pinoche, alias, Augusto Pinochet), ma l’esito complessivo rimane affascinante. Con un bianco e nero che sollecita la venatura dark a fare il suo gioco e la voce off che dà e toglie gravità alla messinscena con calcolata scrupolosità. 

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