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La Palisiada

Regia di Philip Sotnychenko vedi scheda film

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La recensione su La Palisiada

di EightAndHalf
8 stelle

Con la “palisiada” uno dei protagonisti del film di Philip Sotnychenko, già a Rotterdam e ora in concorso a Torino, si riferisce alla figura retorica della ripetizione inutile, della tautologia. Lo fa durante una festa dentro uno yacht, un compleanno di sessant’anni che contiene il fior fior del ministero della giustizia ucraino nel 1996: non si sa se le immagini che stiamo vedendo in quel momento siano frutto di una documentazione diretta degli eventi o siano pura finzione col vezzo della qualità mini DV.
Questo stesso meccanismo di ambiguità regola tutto questo oscuro e radicale capolavoro che rivela quanto sia poco ovvia e in realtà inconoscibile la verità dal semplice “guardarla”, dal registrarne le informazioni principali in presa diretta. Quello che si vede è sempre la scorza di qualcos’altro, di un mondo incomprensibile, di un sottotesto che denuncerebbe da sé la giustizia sommaria e la violenza cieca dell’Ucraina di ieri e di oggi ma che è solo un sottotesto, e dunque sta sotto (o dietro, o altrove, o nel fuoricampo), fuori dall’evidenza. Quello che c’è nel “testo” è un altro paio di maniche: immagini sconnesse, schegge di storie, re-enactment di omicidi (come in Anatomie d’une chute di Justine Triet) ripetuti, registrati, riavvolti, dettati a voce dalla polizia, sfogati su un manichino, trasmessi su schermi dentro schermi dentro altri schermi. Come si collegano i “segni” della Palisiada se non ammettendo che sono incollegabili e al massimo riappiccicabili tramite speculazioni? Forse l’unica alternativa è che lo spettatore cerchi la realtà in quello che non si vede, interrogandosi sull’enunciatore, su chi tiene la camera, chi sceglie le inquadrature, chi monta le immagini.
In un dilemma che si sposta perennemente dalla pragmatica narrativa (perché vediamo gli home movies dei due protagonisti?) all’angoscia esistenziale (perché le riprese di finzione hanno la stessa qualità delle riprese diegetiche? cosa vogliono dire i frequenti sguardi in camera?), il film di Sotnyachenko diventa il teorema impossibile dell’inaffidabilità dell’immagine, una gigantesca litote (altra figura retorica) su come non si racconti un fatto, su quale sia il confine fra leggere, speculare, dedurre e intuire. Richiede tutta l’attenzione dello spettatore che, se ben disposto, può anche imparare a farsi arricchire dalla frustrazione di un mondo alla rovescia, per spalmare di coscienza (morale, storica) il suo sguardo su ieri, oggi e domani.

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