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Barbie

Regia di Greta Gerwig vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Barbie

di SamHookey
3 stelle

Barbie Quinn: Missione suicida. Ovvero, se il film su Barbie l'avesse scritto e diretto James Gunn

 

Il film su Barbie che tutti stavano aspettando. Nessuno avrebbe immaginato che la Mattel affidasse a un regista come James Gunn – reduce dal successo dei tre Guardiani della galassia e dell’ultimo bellissimo Suicide Squad – il primo film live action sulla bambola più famosa al mondo. Eppure talvolta le vie del marketing sono infinite e, con una mossa intelligente e spregiudicata, la celebre azienda di giocattoli statunitense ha sorpreso tutti coinvolgendo nel progetto un regista noto per le sue opere politicamente scorrette e dallo stile sovversivo. Ed eccola lì, Barbie, in tutto il suo splendore, la bambola dopo l’invenzione della quale nulla nell’universo delle bambole è stato più come prima: scossa tellurica di portata incommensurabile nell’immaginario collettivo femminile e non solo.
Interpretata magnificamente dalla stessa Margot Robbie che, nel già citato Suicide Squad vol. 2, aveva donato al personaggio di Harley Quinn una grazia e un’innocenza letali quanto inedite. Al suo fianco un biondissimo e spassosissimo Ryan Gosling nella parte di Ken, bambolotto spuntato fuori dalla costola di Barbie secondo una più che doverosa inversione della Genesi di biblica memoria. Infatti, nel film di James Gunn, tutte le Barbie – tra cui, una delle tante, la Barbie Stereotipo di Margot Robbie – vivono in un mondo ideale, Barbieland, dove le donne sono al potere e ricoprono tutti i ruoli e le cariche più importanti (i Ken sono marginali e in definitiva sottomessi), sebbene i loro caratteri e personalità siano tagliati con l’accetta e si divertano a trascorrere il tempo nel modo più stupido possibile recitando costantemente le medesime parti per cui sono state programmate dall’azienda madre (ovvero una Mattel-mondo reale il cui organico è composto di soli uomini, tutti idioti e capitanati da un avidissimo ceo interpretato dal sempre eccellente Will Ferrell). Il mondo intollerabilmente rosa e leziosetto rappresentato all’inizio della pellicola – incubo distopico per qualsiasi individuo sano di mente – viene progressivamente sostituito da scenografie e paesaggi sempre più cupi dal momento in cui Barbie, durante il solito party serale a base di glitter e sfere stroboscopiche, inizia ad avere consapevolezza di sé e della morte.
Proprio così: la paura della morte, cioè il pensiero più umano che ci possa essere, irrompe all'interno dello scenario più irreale e meno umano possibile. Idea geniale portata avanti con coraggio da James Gunn, che trasforma il mondo-tipo di Barbie in un incubo ad occhi aperti in cui la realtà prende progressivamente il sopravvento svelando la vera natura di uno scenario tutt’altro che perfetto. Squarciato il velo di Maya, infatti, i personaggi acquisiscono mano a mano consapevolezza e veniamo catapultati sequenza dopo sequenza in una città cupa (più simile a Gotham che a Barbieland: i colori divengono scuri, le atmosfere gotiche), dominata dalla violenza, dapprima subdola e poi sempre più esplicita. Violenza maschile, ovviamente. Sì, perché i Ken – ovvero gli uomini – nel film di Gunn sono il nemico vero, la mascolinità più negativa e pericolosa che non mostra subito il proprio volto, ma quando lo rivela (lasciando da parte le macchiette stupide) ci sbatte in faccia tutti gli orrori che gli uomini (ormai non più così divertenti) sono stati e sono capaci di commettere ogni giorno nel mondo reale.
Non è un paese per donne, insomma, sembra volerci dire il regista, che trasforma il film in una sorta di The Truman Show allucinato e violento in cui Barbie, tutte le Barbie, saranno costrette a lottare per portare a buon fine una vera e propria rivoluzione che possa far esplodere dall’interno le contraddizioni di quel mondo di plastica eppure così dannatamente reale, ribaltando nuovamente lo scenario. Anche se, si suggerisce nel finale, la lotta non ha termine ma continuerà ogni giorno, perché ogni giorno e sempre bisogna tenere alta la guardia davanti alle insidie e alle ambiguità di un maschile violento e sopraffattore. Non basta, infatti, un'unica battaglia né è possibile ottenere stavolta un happy ending davvero conciliatorio.
Gunn, come al solito, non ne ha per nessuno, neppure per la storica creatrice della bambola Barbie, Ruth Handler, che appare nel film simile alla vecchia strega del Suspiria di Argento (malefica demiurga, complice di una visione maschilista e oggettificante della donna), né per i pezzi grossi della Mattel dipinti come maschi-vampiri pronti a sfruttare e dissanguare ogni brandello di corpo femminile all’insegna del guadagno e del libero mercato. Dei personaggi appartenenti al mondo reale (spoiler: sì, la protagonista riuscirà a fuggire da Barbieland prima di tornarvi per distruggerla definitivamente) si salvano solo l* piccol* proprietari* della bambola (geniale la scelta di non rivelarne il genere: chi l’ha detto che Barbie è un gioco da femmine?) e sua madre, che Barbie stessa incontra nella periferia povera di una grande città e che l’aiuteranno a comprendere quanto – in ogni luogo, in ogni tempo e in ogni classe sociale – sia difficile essere donne in una società maschilista.

Post scriptum: ovviamente il Barbie di James Gunn non esiste ed è solo un’utopia, un esercizio d’immaginazione appartenente al mondo ideale dei film mai realizzati. Esiste però il Barbie di Greta Gerwig e Noah Baumbach, molto meno coraggioso, dove i colori zuccherini non lasciano spazio a scenari più cupi e la fotografia è piatta ed edulcorata dall’inizio alla fine. Un film in cui gli spunti più interessanti si perdono inspiegabilmente per strada (cosa causa i pensieri di morte di Barbie e della sua proprietaria? come risolvere il conflitto tra l’idea reazionaria alla base della bambola Barbie e le idee femministe di una giovane zoomer? da cosa nasce il patriarcato? cosa significa essere donne e uomini oggi?), un film in cui non viene messa in atto alcuna rivoluzione femminista né viene decostruito e distrutto il mondo plasticoso delle Barbie (anzi, alla fine l’ordine viene ristabilito e tutti i Ken assolti: dopotutto, dovevano solo riscoprire se stessi); né viene mostrata la pericolosità insita nel maschile ma solo la sua goffa stupidità; né viene approfondita o mostrata nessuna delle frustrazioni/difficoltà/violenze che vivono quotidianamente le donne nel mondo reale; né viene messo in discussione un sistema capitalistico-maschilista del potere (è sufficiente dire che Barbie è stata inventata da una donna per assolvere l’intera baracca). In ogni caso il cast del film è ricco di donne e c’è perfino John Cena vestito da sirenetta; basta questo per eradicare il maschilismo. Infine, è presente pure il tema dell’autodeterminazione: Barbie-Pinocchio sceglie di diventare finalmente una bambina vera. Ovviamente bianca, bellissima, benestante e col suv. ©

 

Margot Robbie

Barbie (2023): Margot Robbie

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