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His House

Regia di Remi Weekes vedi scheda film

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La recensione su His House

di mck
8 stelle

“His House”, not (yet) “His Home”.

 

 

Lui e lei, Sope Dirisu (“Gangs of London”) e Wunmi Mosaku (“Lovecraft Country”), abbastanza inglesi da sognare in inglese, rivendicano come patria l’Inghilterra Piuttosto che Voi, dove “voi” sta per -[date le cicatrici ornamentali ottenute per scarificazione, data la (top)onomastica (Nyagak è anche un fiume del nord Uganda, affluente del Nilo Bianco), dati alcuni cartelloni pubblicitari bilingui in francese e arabo (quest'ultima a guisa di lingua franca) visibili durante il passaggio di confine (probabilmente verso la Repubblica Centrafricana ad ovest, presso il crocevia con la Repubblica del Sudan a nord), dato il linguaggio parlato dai due protagonisti (radici swahili, nilo-sahariane, ubangiane del niger-congo: a conoscerne mezza...) e… data la sinossi/flano del provider-book]- la Repubblica del Sudan del Sud (interpretata dal Marocco), matria animista e cristiana, lacerata da un lustro di guerra civile (oltre a tutte le altre antecedenti...) scoppiata fra le etnie Dinka e Nuer.

 


“You're the beast, I'm the butcher.”

L’opera prima - una produzione BBC, Vertigo, Regency e Starchild distribuita da Netflix - nel lungometraggio di Remi Weekes, che scrive la sceneggiatura basandosi s’un soggetto di Felicity Evans e Toby Venables, anche loro entrambi semi-esordienti [la fotografia è di Jo Willems (“Hard Candy”, “BIOS”), il montaggio - le ellissi sono gestite meravigliosamente - di Julia Bloch (“Blue Ruin”, “Green Room”, “Hold the Dark”, “In the Radiant City”, “WoodShock”) e le musiche di Roque Baños, mentre Matt Smith ("Doctor Who", "Womb", "Lost River", "Charlie Says") chiude il cast principale], è un debutto col botto.

“Pictures can't hurt me.”

 


Tanto in gran parte canonico, quanto per buona porzione singolare, raccoglie le più incidenti e necessarie istanze storiche, politiche e sociali del miglior cinema militante contemporaneo, da Jordan Peele (“Get Out”, “Us”) a Ken Loach, passando per Mati Diop (“Atlantique”) e Abdellatif Kechiche ("Venus Noire"), con ulteriori - per ragioni diverse tra loro - assonanze che sorgono alla memoria (“Vivarium”, “Guava Island”, “Zombi Child”, “Go Home - A Casa Loro”, “the Last Black Man in San Francisco” e… “Tolo Tolo”), fra il retaggio spiritual-culturale di chi emigra e il PdV di chi (non) accoglie, mettendole in scena attraverso una sintassi adulta e consapevole che allestisce un'epifania "famigliare" sull'assunzione di "colpa" - elaborandola per emanciparsene - da parte di "innocenti" che muovono passo nell'unico mo(n)do (inania regna, per dirla con Virgilio) in cui ci è dato vivere, quello che forgiamo ogni giorno con la consolatoria prassi - sincera o egoista che sia - del nostro (e "loro", vale a dire umano) ben/buon agire o la consuetudine della nostra (e "loro", ovverossia disumana) indifferenza - al meglio - o - al peggio - semplice, automatica, innata, coadiuvata, rivendicata cattiveria. 

 


“His House”, not (yet) “His Home”.

 

* * * ¾    

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