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Assassinio al terzo piano

Regia di Curtis Harrington vedi scheda film

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La recensione su Assassinio al terzo piano

di spopola
7 stelle

Ecco  un altro film che a mio avviso è stato pesantemente danneggiato dalla titolazione italiana ovvia, banalotta e soprattutto fuorviante, che lo ribattezzò, al momento della sua uscita in sala, “Assassinio al terzo piano” rendendo così un cattivo servizio non solo all’intelligenza del pubblico e alla comprensione dell’opera (persino la critica  lo prese un po’ troppo sottogamba e preferì fermarsi a valutarlo tenendo conto soltanto delle più semplici e meno impegnative linee interpretative di un troppo arzigogolato film di genere – il “giallo” – dimenticandosi però di considerare gli altri sottotesti tutt’altro che sotterranei che la pellicola propone e suggerisce) ma anche e soprattutto al suo autore che non a caso aveva invece scelto di chiamarlo “Games”  (davvero molto più calzante) che - se mantenuto attivo anche da noi - avrebbe forse meglio suggerito la natura anomala di una pellicola molto più ambigua e stimolante  di quanto non potesse invece apparire a una prima frettolosa lettura tutta in superficie.

A scanso di possibili equivoci, è comunque opportuno ricordare che non si tratta certo di un capolavoro e che Curtis Harrington (il regista) non si è mai elevato al di sopra di una buona, diligente  esecuzione artigianale, salvo forse in questa circostanza e - in parte – nelle opere che precedono il titolo in questione (purtroppo adesso praticamente irreperibili, ma che sarebbe necessario recuperare per rendere a Cesare quel che a Cesare spetterebbe di diritto) che è poi finito –  nel prosieguo della sua carriera - al totale servizio di un cinema medio (e a volte anche mediocre) voluto e sponsorizzato dall’industria commerciale hollywoodiana, da considerare (e giudicare) soprattutto sotto il profilo dell’intrattenimento (anche intelligente se vogliamo), che sarà stato per lui sicuramente più remunerativo sotto il profilo economico, ma che lo ha relegato in un ruolo subalterno abbastanza lontano dalle evidenti alte aspirazioni del suo inizio di carriera.

 

Questa volta però ha realizzato qualcosa di più e di meglio (e dovremmo riconoscerglielo): per farlo è comunque necessario contestualizzare l’opera (il tempo infatti è stato decisamente ingeneroso e pesa sulle sue spalle come un macigno)  ricordando, e soprattutto ritornando al clima particolarmente effervescente degli anni in cui è stata realizzata (nella fattispecie, il 1967). A mio avviso infatti – pur con i molti limiti che ha e qualche evitabile “imperfezione” (a partire da un finale che rimanda troppo a quello de I diabolici di Clouzot, una sensazione peraltro amplificata dalla presenza nel cast di entrambe le pellicole di Simone Signoret) resta  uno dei titoli “di genere” che non è solo quello “giallo” però (ed è bene ricordarlo ancora una volta) usciti in quella straordinaria stagione che viene immediatamente prima del ‘68, e soprattutto  uno dei più rappresentativi per renderci palese la particolare situazione in cui versava il cinema americano commerciale di quel tempo che – nolente o volente - subiva l’influenza della corrente “off” fortemente sperimentale  nata lontano dagli studios e  ormai egemone (anche se la sua influenza sarebbe poi durata molto poco) per quanto riguarda gli interessi e l’attenzione “critica” del mercato internazionale. Un cinema insomma un po’ stantio che avvertiva il bisogno di tenere conto di quella ventata di aria fresca che lo consigliava di contaminare un poco anche le sue “creazioni medie” (non dimentichiamo che la pellicola è una produzione “Universal” e che questo è il primo film realizzato da Harrington per una major) con influssi e tendenze di derivazione più espressamente underground  che permettessero di intercettare meglio i gusti di un pubblico in evoluzione come sembrava essere quello di quel periodo (ed è proprio ciò che prova a realizzare il regista con questo interessante “ibrido”).

 

Non va dimenticato infatti che nella sua precedente esperienza con la Fox il regista, se da una parte era stato assistente del produttore Jerry Wald, vera “volpe” dell’industria cinematografica di Hollywood, dall’altra era stato anche l’estensore di una dichiarazione programmatica – scritta quando stava girando Night Tide  e contenuta  in una lettera inviata a Jonas Mekas con cui era in ottimi rapporti “dialoganti” (che – ricordiamo – è stato il cofondatore insieme al fratello dell’Anthology Film Archives e l’autore di alcuni fra i titoli più celebrati dello sperimentalismo cinematografico americano come Guns of the Trees - I fucili degli alberi  e  The Birg – La  prigione) con la quale comunicava la decisione e l’intento di voler fare col suo cinema del “suspense melodramma” finalizzato a testare  nuove forme di rappresentazione.Se non mancano le novità stilistiche e formali dunque, l’opera non è però nemmeno esente da schematismi, condizionamenti e pesanti cedimenti alle esigenze dello spettacolo di consumo hollywoodiano, oltre che da derivazioni ed ascendenze da altri manufatti (come quelle che riguardano il finale, appunto). Tutto questo però a me sembra ampiamente riscattato non soltanto dall’impianto surrealistico e freudiano che sta alla base di tutto lo svolgimento della storia, ma anche dai molteplici elementi fantastici (meglio definirli “fantasiosi”?) disseminati a piene mani dentro la pellicola e dall’umorismo sottile che la sottende, e che contribuiscono a farla diventare - a suo modo - un’opera che si potrebbe definire una volta tanto, “d’autore” o quasi, e come tale tutt’altro che trascurabile, anche se per essere davvero compresa fino in fondo necessita di un lettura approfondita  che tenga necessariamente conto dei differenti piani di osservazione dei fatti e delle circostanze in essa narrati.

 

Ho detto prima che si tratta di un film giallo un po’ anomalo: preciso meglio adesso  che l’anomalia principale è quella di essere un’opera che presenta  una sottile contaminazione verso l’horror (di per sé non una grande novità, mi si potrebbe obiettare) che la colloca più o meno a metà strada fra i due generi (almeno per come erano strutturate le corrispondenti pellicole di provenienza americana e anglosassone di quel periodo) realizzata però in un clima quasi surreale (l’accozzaglia dei mobili e  degli oggetti, gli ambienti, la scultura posta all’ingresso dell’appartamento, vera e propria incursione nella pop-art,l’'ascensore montacarichi che sale e scende nel buio ) e sorretta da un esemplare rigore rappresentativo fatto di “forma” e “stile” in un crescendo emotivo sempre più intenso che sfocerà poi (inesorabilmente) nella catarsi finale, comunque sorprendente soprattutto per chi – vedendolo adesso -  non conosce l’opera di Clouzot che potrebbe mitigare non  poco la sorpresa.

Le pedine di questo allucinante “diabolico” (passatemi il termine) gioco (ed ecco che si ritorna così all’importanza anche connotativa di Games, il titolo originale) che si dispongono sulla scacchiera del racconto seguendo il filo di un disegno prestabilito del quale lo spettatore verrà a conoscenza poco per volta, collegando fra loro i pezzi sparsi di un puzzle secondo un procedimento che rispetta in toto le regole codificate di questo genere di storie, sono formate da due coppie contrapposte e da qualche secondario personaggio di contorno: da una parte una singolare, strana e misteriosa coppia di venditori di cosmetici con una lei (la Signoret) un po’ cialtrona e un po’ maga, come la definisce il Mereghetti; dall’altra quella ancor più bizzarra formata da un prestante giovanotto (Caan) e dalla di lui giovane ricca moglie (Ross) che ama fare scherzi un po’ stravaganti.

Preferisco non anticipare di più sulla storia perché se derogassi ulteriormente a questo principio, renderei a mia volta un cattivo servizio alla sceneggiatura  - molto ben articolata – scritta da George Kearney a partire da un soggetto di George Edwards. Mi limiterò dunque ad aggiungere che se all’inizio tutto sembra scorrere senza troppe scosse con i due venditori dei prodotti di bellezza che si installa nella casa dell’altra coppia, ben presto le cose cominceranno ad ingarbugliarsi sempre più dentro a un processo narrativo che ci porterà a scoprire che la piazzista donna  - consapevole complice del marito – è insieme a lui il deus-ex-machina di un complotto teso ai danni di coloro che li ospitano, e in particolare della bella  moglie dell’aitante giovanotto (invero un po’ tonto e che diventerà a sua volta la vittima designata che servirà a mettere in moto il progetto delittuoso così abilmente ordito) che finirà per impazzire.

Tutto sarebbe però troppo semplice (ed ovvio) se non ci fosse poi un “inceppamento” conclusivo che si confermerà però tutt’altro che casuale, essendo stato generato dal raffinatissimo congegno di un’altra (insospettabile) macchina criminale  più complessa e “scellerata”, manovrata con consumata abilità proprio dalla Signoret che si rivelerà di gran lunga più scaltra (e perversa) del suo rozzo marito americano.

 

Niente di nuovo sotto il sole (mi potreste di nuovo obiettare), ma come sempre sostengo io, al cinema (e non solo) non è tanto ciò che si narra ad essere importante, quanto invece la maniera con cui si rappresenta, e proprio in questa direzione Harrington è bravissimo a costruire una ragnatela  aggressiva e conturbante (ma al tempo stesso anche grottescamente ironica) che prende forma e si dipana ben sorretta dall’efficacia (figurativa e drammatica) delle singole  scene, servendosi peraltro di elementi “dichiaratamente” generati dalle più disparate influenze artistiche (soprattutto quelle letterarie o più genericamente “culturali). Si possono infatti tirare in ballo come riferimenti certi, suggestioni che provengono non solo dal surrealismo e dalla psicanalisi già citate in apertura o dall’avanguardia cinematografica classica (partendo da von Stenberg  per approdare al filone  maturato  all’interno dell’irripetibile esperienza artistica del Greenwich Village di quegli anni), ma anche dalla  letteratura romantica americana ( in particolare la  narrativa di Poe e Melville), elementi questi che erano stati già il filo conduttore delle sue precedenti esperienze altrettanto  significative anche se meno compatte  (per quel che posso ricordare io), come il narcisistico e conturbante Fragment of Seeking del 1946, il grottesco Night Tide del 1961 o l’altrettanto inquietante Picnic dove il sogno era la realtà, che lo connot(av)ano come un regista particolarmente attratto da un genere fantastico attraversato però da innesti che hanno a che fare con l’effettistica dello spavento.

E’ indubbiamente anche un romantico però, ma un romantico del ventesimo secolo (e per giunta anche americano) e quindi capace di depurare le più facili suggestioni liriche e drammatiche con l’ironia e il grottesco (qui profusi a piene mani fin dalla sequenza iniziale con i suoi personaggi tutti raccolti attorno ad una esercitazione spiritica in un ambiente contemporaneo ma che sembra scaturito dal passato, sullo sfondo di una città proiettata nel futuro come poteva apparire la New York di quegli anni, i cui alti edifici svettano prepotenti proprio in apertura a fare da giusta cornice a tutto il resto) senza però minimamente intaccare o togliere sostanza alla dimensione poetica della messa in scena.

 

E’ dunque propriamente questo l’affascinante segno distintivo (il mistero?) che marca in positivo le sue opere (parlo soprattutto della prima fase della sua carriera molto più stimolante di quella conclusiva) “con quel continuo passaggio dalla realtà al sogno e da questo a quella in una medesima dimensione spettacolare, con la conseguente ambiguità delle situazioni e dei personaggi (Gianni Rondolino) che spinge le sue storie dentro un binario obbligato più o meno realistico (all’apparenza), richiesto dal meccanismo del “giallo”, ma particolarmente indicato  al fine di rendere credibile (accettabile) allo spettatore anche le situazioni più “irreali” (come potrebbe sembrare l’apparizione del giovane assassinato).

 

 

A favore del giudizio positivo, si può citare ancora il sottile “disegno”  che il film ci offre del rapporto di amore/odio che lega le due coppie di coniugi sottesa da una misoginia quasi inavvertibile ma presente in tutto il film, indagata però con la delicatezza raffinata di un semplice sguardo o persino suggerita da un sussurro che svela il “trucco” che sta dietro alla calcolata, progressiva e ambigua opera seduttiva che la Signoret porta avanti con assoluta, perspicace astuzia  nei confronti dell’aitante giovanotto in un susseguirsi di situazioni sempre più allarmanti e complesse, in cui non si riesce mai a capire fino in fondo chi sono le vittime e chi i carnefici e soprattutto chi è il burattinaio che tira i fili che determineranno l’esplosione esplosione della pazzia di chi dalla scacchiera viene escluso così controllata e straziante, ma fondamentale per sottolineare una volta di più il carattere di “gioco” (Games, appunto)  sia pure di disumana cattiveria con cui il reigista ha inteso strutturare la sua pellicola. Un “gioco” infarcito  di una intrigante ambiguità costantemente “dichiarata” e sostenuta con baldanza che aiuta a spostare i personaggi (e le azioni che compiono) su un piano superiore persino alla contingenza immediata del racconto, senza dimenticare però il senso di mistero e falsità che avvolge ogni essere e ogni cosa, a partire  dagli  anacronistici costumi della “venditrice” per arrivare a quelle maschere orribilmente asessuate che i protagonisti indossano in una delle sequenze più agghiaccianti (anche se adesso  - abituati a ben altro – risulta molto meno disturbante di una volta), ma al tempo stesso anche fra le più ironiche coi suoi continui rimandi “a una realtà-autre che li spieghi o li giustifichi ma di cui non si conoscono i confini, se non quelli che riguardano la fragilità della condizione dell’uomo e la sua incapacità ad uscirne vittorioso. (ancora Rondolino).

 

 

Come sempre ottime le prove di tutto il cast, da Simone Signoret – vera dominatrice della scena - a James Caan; da Katharine Ross a Don Stroud.

 

al terzo

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