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Nuestro Tiempo

Regia di Carlos Reygadas vedi scheda film

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La recensione su Nuestro Tiempo

di mck
8 stelle

Amori alla stanga.

 

 

I. “Il triangolo no”, ovvero: “Milioni di anni di evoluzione, vero? Vero?” (EWS).

“È stato quando ho posato per la prima volta gli occhi su di te che ho iniziato a pensare a me stessa.”

Nel 2018 una versione alternativa del borghese nucleo famigliare (pallidamente patriarcale) di “Post Tenebras Lux” è sopravvissuto a sé stesso [lo si scopre dopo il folgorante – nonostante sia formalmente e stilisticamente identico a quello del film precedente, e pure al contempo quanto di più distante da esso dal PdV del contenuto e della sostanza – incipit (un’evoluzione assestantesi rispetto a quello di PTL: pro-logos) en plein air di puro cinema... 

 

 

...al lavoro attraverso una camera a mano ammortizzata ed attrezzata con grandangoli estremi ch’esplorando i volti in relazione tra loro dispongono a piacimento (de)i relativi corpi kechiche-dumontiani (prima bambini e poi ragazzi, e che nel finale verranno sostituiti dalla bestiale animalità ferina “priva” di linguaggio dei Bos taurus) muovendoli in primo piano lungo sublimi traiettorie libere d’ogni tracciato come fossero la controparte antropomorfa dei rinverditi e selvaggi coni vulcanici punteggianti l’ecotonale territorio sino all’orizzonte del paesaggio incorniciato da vignettature oltre che d’arcobalenici lens flare lubezki-malickiani] avviando un allevamento di tori da corrida (quattro anni dopo alcuni stati messicani, compreso il distretto della capitale, sospenderanno gli spettacoli di tauromachia).

 


II. “Amore Mio Aiutami”, ovvero: “Dramma della Gelosia (Tutti i Particolari in Cronaca)”.

“All’inizio ho sofferto in silenzio per molti anni. Ora tu non sei in grado di sostenere il mio percorso.”

La coppia di sposi (nella finzione e nella realtà) formata dal protagonista (interpretato dallo stesso regista, sceneggiatore, montatore e produttore Carlos Reygadas, qui per la prima volta davanti alla MdP) Juan (medesimo nome di quelli di PTL e di “Stellet Licht”) e dalla deuteragonista [interpretata da Natalia López, montatrice di professione (oltre a SL/LS e PTL anche “Jauja”), oltre che regista di “Robe of Gems”, ed anch’ella al suo esordio assoluto da attrice, mentre in PTL la co-protagonista era un’altra Natalia, impersonata da Nathalia Acevedo] Ester (quas’identico nome del personaggio principale di “Luz Silenciosa”), nuestro tiempo (Sordi-Sonego-Pinelli & ScolaAge-Scarpelli con 50 anni di “ritardo”) docet, è – su richiesta post-colpa di lui – aperta (lei gli restituisce - sembra a manetta - il “favore” dell’antico tradimento, che ogni tanto pure lui perpetua, ma con meno convinzione), sino a quando questa sorta di vessata utopia privata si sfalda perché lei gli tace l’ultima scappatella con un gringo (Phil Burgers) come sempre concordata e favorita da lui, scatenando domande prima represse con malcelata noncuranza e poi fatte deflagrare alimentando rovelli bonelleschi: il ridicolo involontario viene stemperato dall’estatica liricità piena di grazia e brutalità, tanto (in/dis)umana quanto zoocentrica.

 


III. Jules/Juan et/y Jim/Phil, ovvero: A Barriage Story.

“Nella migliore delle ipotesi, ha bisogno di affermare sé stessa; in un caso intermedio, vuole vendicarsi di me; nella peggiore delle ipotesi, ti desidera così tanto che ti ama davvero.”

La dormiente e in potenza violenza domestica (principalmente del maschio contro la femmina, piuttosto che del ranchero datore di lavoro verso i suoi stipendiati cowboy e colf/babysitter, entrambe comunque strutturali e rappresentate come ed in quanto tali) è sempre in sottofondo e dietro l’angolo, m’a scorrere saranno, più androidi che ginoidi, solo le lacrime [oltre che le viscere squartate di un asinello da tiro incornato e sventrato, per colpa di alcuni operai inesperti e/o ubriachi, da un toro - la scritta “ningún animal fue lastimado en la realización de esta película” è chiara, ma la scena in questione, sostanzialmente bipartita, con un equino prima in piedi e vivo (ed apparentemente protetto come un caballo de picar) e poi un altro (?), intabardato allo stesso modo, riverso al suolo e incornato, ma già chiaramente morto, è fatta realisticamente benissimo -, mentre nell’epilogo (per forza di cose e di natura muto, e quind’in parte dicotomico contraltare al prologo) un altro toro, anch’esso incornato e poi rotolante giù da una scarpata, è palesemente già cadavere in partenza e probabilmente spinto giù da un carrello elevatore imboscato dalla distanza elevata e dalla prospettiva angolata, anche se subito dopo in cima al crinale, gettando un indifferente sguardo verso il basso da lontano, compare al posto del muletto il vero maschio alfa avversario che l’ha sconfitto].

 


IV. «“La borghesia, il proletariato, la lotta di classe!”, cazzo!»

Il Reygadas scrittore, attore e regista ce la mette proprio tutta per far apparire il suo alter ego come un cretino fatto e finito, un idiota da competizione e un coglione da esposizione (immaginatevi una via di mezzo tra Mattia Santori e Lodo Guenzi o Diego Fusaro e Francesco Giubilei o Giovanni Donzelli e Galeazzo Bignami - ho dato in pasto a ChatGPT di OpenAI le suddette caratteristiche e i nomi che m’ha cavato fuori questi sono - che si ritira in campagna per avviare un allevamento di alpaca e struzzi) e gli va dato atto che - setacciando il tutto dall’autoindulgenza - ci riesce benissimo, e anche proprio per questo la lotta di classe in “Nuestro Tiempo” è rappresentata in tutto il suo latente livore né più né meno che in “Batalla en el Cielo” e in “Post Tenebras Lux”.

 


V. Di tutte queste albe e tramonti e di tutta questa musica nell’aria.

Ho una chiave
quindi apro la porta ed entro.
È buio ed entro.
È più buio ed entro.
(Mark Strand)

 


Fotocinematografia di Diego García (“Too Old to Die Young”, “Causeway”) e Adrian Durazo (“Robe of Gems”), già collaboratori - il primo come direttore della fotografia e il secondo come operatore alla macchina e direttore della seconda unità - sul set di “Wildlife”, che coadiuva alla perfezione tutte le istanze manieristico-sperimentali d’autore: molto interessanti le sequenze - non innovative, ma significative - sull’adeguarsi dei bastoncelli all’assenza di una fonte percepibile di luce, sugli scorci “impossibili” dei camera-car “alternativi” con le go-pro posizionate tra il cofano e il motore e tra le sospensioni e il sottoscocca (mentre dal lettore CD dell’automobile diegeticamente scorre “the Carpet Crawlers” dei Genesis) o il 2.39:1 montato s’un dronelicottero d’alta quota che si rivelerà essere, mentre s’aprono...

 

 

...i portelloni della fusoliera, il carrello di un Boeing in manovra d’atterraggio vespertin-serotino all’Aeropuerto Internacional de la Ciudad de México sfociante – dopo aver sorvolato lungo la propria rotta Riserve della Biosfera e Parchi Nazionali (Iztaccíhuatl-Popocatépetl, el Tepotzteco e le Cumbres del Ajusco e della Sierra Nevada) e, ben distinguibili, lo Stadio del la Ciudad de los Deportes (football e rugby, discipline sportive che in minimale parte qui e in parte maggiore in PTL hanno una loro importanza) quanto quello della Plaza de toros México in cui si svolgono le corride – sul ritrovato murales dipinto da Diego Rivera (consorte di Frida Kahlo e autore del celeberrimo "Epopeya del Pueblo Mexicano") al Cárcamo de Chapultepec...

 

 

...rimasto sott’acqua, con tanto di axolotl, per quarant’anni, e sulla “persistenza” della narrazione veicolata (oltre che da lettere, chat, tele/videofonate, con un approccio e una consapevolezza multi-metamediale pari solo a TÁR), da lunghi piani sequenza a macchina da presa semi-fissa con lentissimi carrellli/zoom in avanti mentre un mash-up di dispositivi d’inventiva incongruità tra i quali il voice over di un narratore paradossalmente onnisciente (Rut Reygadas, la vera figlia di Carlos Reygadas e Natalia López, e già indimenticabile protagonista del potentissimo prologo archetipico/mitopoietico di “Post Tenebras Lux”, che qui con il fratello Eleazar e il più grande Yago Martínez interpreta la discendenza della coppia nell’auto-finzione cinematografica) e al contempo inattendibile/inaffidabile (è una bambina che legge un copione adulto-poetico il cui significato non può comprendere). 

 


L'unica scena che a pelle ho trovato un po' "gratuita" perché "sciatta", nella quale la casual-semplicità non riesce a soverchiare il "catchy" dando al tutto un senso di faciloneria, è quella con la ripresa del cristallo di quarzo piazzato in p.p. di fronte al capezzale del conoscente/amico moribondo: ma in fondo è solo per descrivere l'ambiente, come col buddha sopr’al comodino o coi grilli nel terrario in vaso di vetro. 

 

 

Altresì, come "sempre" in lavori come questi, risulta inevitabile che vi siano alcuni più o meno lunghi momenti nei quali la sindrome da "i Mostri - Scenda l'Oblio" (Risi, Age, Scarpelli, Petri, Scola, Maccari) salti fuori (tipo "Hm, quel pavimento in cotto è bello, ma non lo metterei mai in cucina, anche se è una casa di campagna!") per prendere temporaneamente il sopravvento.

 


Poi, qualunque opera che contenga, utilizzi, rispetti e valorizzi “Islands” dei King Crimson con la cornetta di Mark Charig non può ch’essere un capolavoro. 

 


Ed eseguita per l'occasione dal vivo sul set durante le riprese, c’è pure “Halloween” di Jesús Balthazar Hernández Ramos in arte El Muertho de Tijuana, la versione degli Estados Unidos Mexicanos di Daniel Johnston. 

 


VI. “Aho Mitakuye Oyasin” (“Siamo Tutti Connessi”, aka “Tutto il Mondo è Paese”), ritornello (epiclesi laica) di molte preghiere e canti Lakota Sioux.

 

Ed altri bovidi, nelle brumose nebbie e non (Fellini, Coppola, Weerasethakul, Herzog, Sheridan, eccetera).

 

Ma qui: che Messico! E che nuvole! Sembra di stare sugli olmi-piavol-tarkovskyani prati di Santa Valeria a Caglio nella porzione brianzola del Triangolo Lariano.

 

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(Giovanni Segantini - "Alla Stanga" - 1885-'86; olio su tela, 170 x 389,5 cm.)

 

* * * * (¼) - 8.25     

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