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Miserere

Regia di Babis Makridis vedi scheda film

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La recensione su Miserere

di supadany
8 stelle

Torino Film Festival 36 – Concorso Torino 36.

Per quanto un dolore dovuto a una morte o a una malattia sia devastante, alla lunga si finisce per rassegnarsi all’evidenza, anche perché è lampante come non ci sia nient’altro da fare che resistere e tentare di andare avanti. In ogni caso, quando le abitudini quotidiane sono stressate fino a provocare un cambiamento totale, la reazione più istintiva preme per contrastarne il moto.

In Pity questa opposizione apre uno squarcio malsano dagli effetti iperbolici e distanti da un qualsiasi sentore comune, seguendo lo stile freddo e calcolato, il linguaggio rigorosamente inquadrato e un trattamento sinistro, che hanno portato parecchia acqua al mulino del cinema greco degli ultimi anni.

Da quando sua moglie (Evi Saoulidou) è in coma, un avvocato affermato (Yannis Drakopoulos) si nutre della compassione altrui: la vicina di casa gli prepara delle torte squisite, l’addetto della lavanderia è più gentile del solito e il suo migliore amico si rende disponibile per un qualsiasi aiuto.

Nel momento in cui sua moglie si risveglia e tutto torna alla precedente normalità, l’uomo scopre di essere più infelice di prima, tanto da architettare imbrogli subdoli e avanzare richieste scortesi, il tutto per ricevere ancora il trattamento riservato alle persone distrutte dal dolore.

Questa situazione non ha le basi per durare a lungo, ma l’avvocato non ha alcuna intenzione di arrendersi alla realtà.

 

Giannis Drakopoulos

Pity (2018): Giannis Drakopoulos

   

Opera seconda di Babis Makridis (L), scritta come per il suo esordio dal regista stesso con Efthymis Filippou, noto principalmente per la sua collaborazione con Yorgos Lanthimos (insieme hanno realizzato Kynodontas, Alps, The lobster e Il sacrificio del cervo sacro), Pity rinnova quanto di buono - nel marciume grottesco che rappresenta -  il cinema greco ha prodotto negli ultimi anni.

Tanto per cominciare, forma e contenuto dialogano alla perfezione. Segnatamente, la messa in scena è di altera eleganza, con interni geometrici, particolarmente attenti ad arredi e quadri, ed esterni che vivono dell’abissale contrasto tra il tenore di quanto descritto e l’abbacinante luce fluita dal connubio tra il mare e una stagione solare.

Nonostante questi pregi, la portata principale giunge dalla genialità del guizzo narrativo, che vede il protagonista disposto a qualsiasi contromisura per non perdere la sua dose di compassione quotidiana. Un taglio imposto dalla sceneggiatura quanto mai originale, un ingranaggio psicologico che scalfisce un pezzo per volta la razionalità, costruendosi nella prima metà del film per poi ruotare di 360° e infilare una sequela di passaggi che incrementano esponenzialmente la crudeltà e la scortesia, arrivando a livelli inauditi.

In più, tutto ciò avviene controllando minuziosamente la spaziatura, in una scansione di lacrime e glacialità nera come la pece accompagnate da didascalie di pregiato compendio, che si lascia scappare un paio di sbavature – per di più sostanzialmente evitabili - quando ormai il successo è già agguantato.

Già, perché Pity è una di quelle opere che non passa nell’indifferenza (mal che vada, può creare una repulsione totale), arricchita anche dall’espressività dei volti degli interpreti e dalla sua ostinazione nell’allontanare la luce che parrebbe comparire in fondo al tunnel.

Uno schiaffo alla morale e alle consuetudini, di devastante bellezza.

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