La Mostra del cinema di Venezia ha consegnato i suoi premi qualche settimana fa. Il Toronto International Film Festival è iniziato e finito, e così San Sebastián, mentre Busan già reclama tutta la nostra attenzione. È quindi un buon momento per tornare al Lido, guardare alla selezione di quest’anno, leggerla nella sua interezza e non solo film per film – provare a vedere cos’ha da dire oltre all’interesse momentaneo per le proiezioni in anteprima.

Il 90° anniversario della Mostra internazionale d’arte cinematografica non è stato onorato con nessuna celebrazione speciale. Eppure, a giudicare dal programma del suo Concorso, con la sua
gravitas stanca e la sua determinazione quasi fastidiosa a obbedire a ogni dettame del politicamente corretto, il giubileo sembra aver influenzato fortemente ogni singola decisione di Alberto Barbera. Nessuno scandalo, nell’anno dell’anniversario, ma anche nessuna libertà artistica o culturale!

E quindi, la competizione è stata apparecchiata in modo tale da soddisfare con sicurezza la platea più ampia, media e conformista possibile, contemporaneamente tenendo in considerazione i bisogni e i desideri dei tutti i più importanti
player industriali internazionali, così da assicurarsi le loro première al Lido anche per il futuro.

" data-credits=
Poster di Blonde di Andrew Dominik


Proprio per questo, Venezia ha rivelato molto dello stato del cinema di oggi. O di tutto ciò che associamo al termine “oggi”, inclusi i canali streaming, che erano presenti con una rappresentanza ancor più massiccia del solito in Concorso, con lavori che sarebbero approdati online pochi giorni dopo, per esempio
Blonde di Andrew Dominik. Il corteggiamento delle piattaforme da parte di Barbera, soprattutto quello di Netflix (la cui apparizione del logo sullo schermo è stata spesso accolta da sibili e fischi), riporta alla memoria la Berlinale di metà anni 90, quando il direttore Moritz de Hadeln corteggiava la Miramax come un matto, imbottendo la sezione competitiva di varie produzioni Weinstein consapevole che le probabilità di ospitare così un futuro vincitore di Oscar erano piuttosto alte.

Il parallelismo non è una coincidenza: da quando la data degli Academy Award è stata posticipata, Venezia si è dedicata al cinema statunitense con lo stesso fervore messo in atto fino ad allora da Berlino. Il programma di quest’anno sembra il trionfo di questa tendenza: circa metà dei titoli, con l’eccezione di
Un couple di Frederick Wiseman, appariranno di sicuro nelle liste di nominati agli Oscar, fossero anche solo quelle delle categorie tecniche.

In generale, il Concorso 2022 è parso più monolitico e a senso unico che mai: in totale, tre quarti dei lavori sono arrivati da Usa, Gran Bretagna, Francia e dal paese ospitante – il resto del mondo rappresentato da una produzione messicana Netflix, una produzione argentina Amazon, due opere iraniane rispettivamente con distribuzioni internazionali tedesca e francese, più un film giapponese, ancora una volta con distribuzione francese. Si parla molto di
world cinema, ma se l’obiettivo è una soddisfazione middle class priva di conflitti, questo è quel che passa il convento.

Lo stesso, in definitiva, vale anche per la sezione Orizzonti, apparentemente più aperta in termini di paesi partecipanti, ma, una volta che i titoli di testa e di coda cominciano a scorrere, piena dei soliti nomi e dei soliti fondi, scuole, lab, etc. Risulta chiaro che il mondo dei film arthouse e del cinema da fastival è un milieu chiuso e ristretto proprio come quello dei grandi studios. Quanto Barbera abbia voluto giocare sul sicuro è evidente dall’assenza di film russi.

" data-credits=
Immagine di Fairytale di Aleksandr Sokurov


Un’assenza notevole, considerando che Barbera è stato uno dei primi a dichiararsi apertamente e profusamente contro il boicottaggio dei film russi – ma poi, pare, ha voluto evitare le mail infuriate da questo o quell’istituto ucraino, seguite magari da una o più
shitstorm su Twitter. Locarno ha ringraziato e ha proiettato Fairytale di Aleksandr Sokurov. Ma, ehi, Barbera può sempre affermare che il film semplicemente non gli è piaciuto… Ed essendo un astuto politicante di lungo corso, è stato abbastanza furbo da piazzare un (noioso) film ucraino in Orizzonti, e nello stesso tempo a lanciare Fuori concorso un lavoro propagandistico dalla parte delle vittime: Freedom on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom di Evgeny Afineevsky.

Nel frattempo, titoli provenienti da ex paesi sovietici hanno assicurato che l’assenza russa non fosse immediatamente visibile. Nel Fuori concorso c’era poi uno dei maggiori “
Putinsplainer” d’Occidente: Oliver Stone, che ha presentato il suo spot per l’energia atomica Nuclear, fatto la cui cupa ironia pochi hanno commentato. Ciò che, nel contesto attuale, suscita ancor più perplessità, riguardo alla presenza di questo film a Venezia, è il suo climax: un peana a favore della Russia, presentata come la potenza leader nel settore nucleare, e quindi la miglior compagna desiderabile per un futuro libero dalla CO2. Vediamo quando potremmo discuterne sul serio…

Se, a livello cinematografico, né
NuclearFreedom on Fire sono un granché, è la loro presenza a sottolineare in realtà la forza della sezione veneziana più libera: il Fuori concorso, che oggi si è evoluto in niente meno che un’alternativa utopistica al resto del festival. Fuori concorso può starci di tutto, anche editoriali audiovisivi sugli affari contemporanei che solo pochi anni fa sarebbero stati considerati niente più che meri documenti dello Zeitgeist politico. Per molto tempo, invece, il Fuori concorso ha ospitato principalmente blockbuster pieni di star che garantivano “carne” da red carpet, più le produzioni locali la cui presenza faceva felici le folle.

" data-credits=
Monster X Strikes Back: Attack the G8 Summit!


Detto questo: il sempre visionario Marco Muller aveva già sperimentato con le potenzialità di quella sezione – ricordiamo tutti, per esempio, lo splendido
kaiju eiga satirico di Minoru Kawasaki The Monster X Strikes Back: Attack the G8 Summit, nel 2008. Barbera, lentamente ma con determinazione, si è spinto oltre, soprattutto includendo sempre più documentari.

Oggi, qualsiasi cosa non rientri in categorie facilmente identificabili, finisce qui: i capolavori che ti fanno domandare come mai non siano in Concorso, come quest’anno il Lav Diaz alla prova con l’esistenzialismo dostoevskijano di
When the Waves Are Gone, o l’ironica meditazione di Gianfranco Rosi sulle difficoltà di sua santità con le ingiustizie terrene In viaggio; i film di genere felici semplicemente di “funzionare” come perfetti western, polizieschi o horror (più qualche sfumatura “extra” per i curiosi e i sensibili), come il meravigliosamente tradizionale Dead for a Dollar del maestro Walter Hill, che sembra costantemente fresco e vivace proprio perché è consapevole della storia cui appartiene, o il debutto nel lungo di fiction di Francesco Carrozzini, il sinuoso adattamento da Jo Nesbo The Hanging Sun; o, ancora, pezzi unici, fenomeni eccezionali, come Gli ultimi giorni dell’umanità di enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo, tre ore a ruota libera, un montaggio mitologico di home movie di ghezzi e scene degli amati classici di Fuori orario, incluso l’eponimo adattamento televisivo di Luca Ronconi della leggendaria produzione di Karl Kraus per il Teatro Stabile negli anni immediatamente successivi alla caduta del Muro.

" data-credits=
When the Waves Are Gone di Lav Diaz


Anche il più grande dei tabù da festival è stato spezzato, qui: con
Living di Oliver Hermanus, una trasposizione – mortalmente sonnolenta anziché piena di vita – di Vivere di Akira Kurosawa nell’Inghilterra post bellica, un film che prima di esser presentato a Venezia ha avuto la sua prima mondiale più di un anno e mezzo prima a un altro festival, cioè il Sundance, anche se solo in streaming.

Attraversare il Fuori concorso è stato un po’ come riscoprire da capo il cinema: mentre il Concorso era pieno di film che spesso ostentavano la propria “importanza” e “originalità”, il proprio “essere un evento”, il Fuori concorso pareva un universo che non aveva bisogno di dimostrare niente a nessuno. Il cinema esisteva per se stesso, e per il pubblico. E basta. Difficilmente uno di questi film avrebbe avuto grandi possibilità di esser premiato se fosse stato messo in gara – ma le prossime generazioni di spettatori certamente scopriranno o riscopriranno molte soprese da questa sezione, nei prossimi decenni. Si spera.

Autore

Olaf Möller

Olaf Möller è un critico e programmatore freelance. Autore per varie riviste internazionali di cinema (Film Comment, Cinema Scope, Sight & Sound tra le altre) è anche consulente per diversi festival (incluso Il Cinema Ritrovato e International Film Festival Rotterdam) così come per musei e archivi cinematografici. È co-direttore, con Giulio Sangiorgio, del festival di Trieste I mille occhi, fondato da Sergio M. Grmek Germani. È inoltre professore di storia e teoria del cinema alla School of Arts, Design and Architecture della Aalto University (Helsinki), e ha scritto e pubblicato diversi libri sul cinema. Nel 2016 ha co-curato la retrospettiva del Locarno Film Festival Amato e rifiutato: il cinema della giovane Repubblica Federale Tedesca.