Sembra che gli autori del cinema contemporaneo stiano cercando di interrogare sempre di più la relazione tra l’immagine digitale e la storia. Tra chi esplora il digitale per ripensare l’ecologia mediale (come James Cameron, da sempre all’inseguimento di un’idea di riciclo dell’immaginario e dell’audiovisivo come materia liquida) e chi invece lo usa per dissimulare la propria critica sovversiva agli spazi del potere dall’interno (come nel caso di David Fincher, e i suoi film anti-algoritmici dentro Netflix), c’è chi decide di abbandonare l’analogico proprio per interrogare il rapporto tra tecnologia, progresso, storia e memoria, chiedendosi quale sia la traccia lasciata dal digitale, quale la forma di archivio implicitamente suggerita dalla sua struttura, quale la coscienza storica costruita nel suo rapporto con lo sguardo. Il cinema di Steven Soderbergh, uno dei massimi pensatori del codice informatico applicato al cinema, prende la svolta digitale, sorprendentemente, proprio con una riflessione storica: il dittico biografico su Che Guevara (L’Argentino e Guerriglia). È proprio la tecnologia digitale che, nel secondo capitolo, permette al regista di lavorare sull’infinita attesa, l’esercizio di morte del rivoluzionario - tra Straub-Huillet e Rossellini, scriveva all’epoca Giona A. Nazzaro. E a consentirgli di aprire una stagione di ricerca (Soderbergh scherzosamente la definisce “pensionamento anticipato”), in cui il digitale stesso diventa quasi indistinguibile corpo del tempo morto, non solo nuovo paradigma della conoscenza, ma vera e propria condizione di esistenza, tessuto spaziotemporale, categoria trascendentale che permette di visualizzare la ragione tardo capitalista: l’aria che (non) si respira, quel campo di forza che costituisce la quotidianità, sospesa e senza più luogo a procedere, chiusa nell’impasse di una continua codificata ripetizione.

Soderbergh chiede di osservare questo stesso invisibile tempo morto nei suoi sottili cambiamenti e momenti di apparizione, mostrandolo a movimento in corso sullo schermo mentre esso si diffonde endemicamente (Contagion), riluce come spettacolo per nascondere lo sfruttamento (Magic Mike), diventa misura di sorveglianza (Unsane) e si organizza in capitale culturale per distinguere le classi sociali (No Sudden Move). Fino a optare per un ribaltamento radicale, uno scavalcamento del campo ontologico: non più cioè cercandolo attraverso il negativo, scolpendolo fuori, deducendolo dalle scene del mondo del mercato - sessuale (The Girlfriend Experience), degli stupefacenti (The Informant!), dello sport (High Flying Bird), delle assicurazioni (Panama Papers) - ma rappresentandone il punto di vista, la soggettiva, e portando così lo sguardo dello spettatore a una condizione di inedita partecipazione sensoriale con la sua fantasmatica presenza. Ecco che, infatti, in Presence il tempo morto del nostro presente vive, e di più: costituisce la condizione di visibilità attraverso cui la realtà si dà e si tiene, rivendicando una propria prospettiva sulle cose, un’agenzia, un’agenda da protagonista.

Dall’immaginario dell’horror lo sceneggiatore David Koepp attinge per caratterizzare la presenza/assenza, vita/non vita come una figura narrativa, quella di un fantasma intrappolato in una casa. È di questo fantasma misterioso, lo sguardo che getta occhiate insicure fuori da una finestra, ritraendosi al passaggio degli esseri umani, come fosse in timida attesa tra le stanze di una bella villa di periferia, messa a nuovo per l’arrivo della famiglia Payne – Rebekah e Chris, genitori, Chloe e Tyler, figli. L’horror (il primo per Soderbergh) non è però un pretesto, un McGuffin, anzi. Il genere è rispettato come un’esperienza matrice – a Soderbergh l’idea del film nasce da un aneddoto della propria vera casa - in cui la domanda sul senso incontra un’ipotesi di straniamento della sensazione: che traccia lascia l’assassinio invisibile che sembra saturare ogni angolo della realtà, e come è possibile vedere questa traccia? In particolare, il regista americano vuole riconoscere nell’horror una via per riflettere, dopo il trauma collettivo dell’isolamento pandemico, sulla nuova stagione di sfiducia nei confronti della realtà domestica. Già negli ’80 l’horror (Shining, certo, ma anche il dimenticato Entity di Sidney J. Furie) aveva capito prima di tutti l’oscurità dell’ideologia domestica promossa dalla neoliberalismo reaganomics – unheimlich dicono i tedeschi per definire il perturbante, letteralmente “ciò che non è dimora”; poi nel 2008, con la crisi dei mutui subprime, e il conseguente tracollo dell’economia mondiale, il genere aveva funzionato come cassa di risonanza allegorica attraverso cui esprimere la paura nei confronti della casa – portando addirittura a registrare un picco di film su case infestate (Paranormal Activity, Insidious).

Presence non tematizza direttamente l’isolamento pandemico - come invece fa Robert Zemeckis in Here, altro film che interroga il ruolo dello sguardo nel rapporto tra immagine digitale, coscienza storica e architettura domestica – ma lo interpreta di taglio, partendo da un trauma privato (la morte della migliore amica di Chloe, Nadia, e di altre ragazze della sua scuola) e dai suoi effetti su un equilibrio famigliare che sembra definitivamente compromesso.

Presto capiamo che la presenza non vuole spaventare nessun membro della famiglia, anzi; prendendo esempio dalla bontà con cui Chris, capofamiglia dalla mascolinità destrutturata, cerca di proteggere proprio Chloe dalle angherie della madre – white collar con una frode da nascondere e un’ossessione per il figlio maschio –, e dal bullismo del fratello Tyler, preoccupato che le fragilità psicologiche della sorella possano impedirgli di diventare popolare, il fantasma protegge Chloe con quello che potremmo definire un affettuoso sguardo metafisico, al punto da intervenire, facendosi percepire dai membri della casa, per difenderla più volte dalle intenzioni criminali di Ryan, il nuovo popolare amico di Tyler, con cui Chloe (ignara della sua sociopatia) stringe una relazione. Soderbergh trova gli angoli e le misure per caratterizzare la soggettiva del fantasma in senso umanista (ma non antropomorfo), allineandoci anche sul piano emotivo con quest’ultimo: l’orrore non proviene dallo spettrale, ma dall’umano, come intuisce la medium che visita l’abitazione e intravede la presenza nell’antico specchio della casa: “La presenza in questa casa è qui per impedire un evento futuro. Ha paura di qualcosa che non è ancora successo, ha paura di una finestra che non si apre”.

Proprio attraverso la soggettiva libera indiretta dello spettro, il finale del film ci svela in che modo il mistero dell’identità di quest’ultimo è legato al triangolo composto dai tre ragazzi. Quando Chris e Rebekah partono per un viaggio di lavoro per ricomporre il matrimonio, Tyler beve e ascolta musica in salotto. La Presenza si avvicina e sembra che lui la percepisca, ma Ryan arriva e lo distrae, drogandogli la bevanda e facendogli perdere conoscenza, per poter portare una seconda bevanda alterata a Chloe.

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Presence

Quest’ultima rifiuta di fare sesso, ma Ryan la costringe a bere, lasciandola stordita. Inizia a soffocarla con una pellicola trasparente, vantandosi di aver ucciso Nadia e un’altra ragazza nello stesso modo e di aver inscenato tutto come un’overdose. La Presenza non riesce a intervenire. Scende quindi al piano di sotto e riesce infine a svegliare Tyler, che corre in camera di Chloe e si lancia contro Ryan, facendo cadere entrambi in un volo fatale dalla finestra della stanza.

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Tempo dopo, la famiglia sta lasciando la casa, e prima di andarsene, Rebekah percepisce la Presenza. La segue fino allo specchio antico nel soggiorno: proprio nello specchio antico vede Tyler. Mentre il resto della famiglia si stringe attorno a lei, il fantasma lascia finalmente la casa e, libera, ascende nel cielo, con un movimento che ricorda quello della macchina da presa alla fine di Here.

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In entrambi i casi il movimento ascensionale allegorizza una risoluzione, o meglio, un’agnizione in senso classico, un riconoscimento dell’identità - momento culmine nella costruzione della drammaturgia tragica. Su un piano prettamente intrapsichico, la rivelazione istanzia il fantasma come precipitato della colpa edipica del personaggio di Tyler, plagiato dalla madre e incapace di mostrare alla propria famiglia (soprattutto al padre) la cura nei confronti della sorella. In questo caso Soderbergh e Koepp sembrano ribaltare la struttura edipica, perché all’opposto della tragedia di Sofocle, solo quando la madre riconosce in Tyler un figlio – e non un’ambigua estrinsecazione dei propri desideri sessuali repressi – e a seguire gli altri membri lo perdonano (come uomo il padre, come fratello la sorella e lui stesso come soggettività maschile non tossica) quest’ultimo si libera davvero. Ma a essere rilevante per la comprensione del ruolo di questa soluzione formale – la soggettiva libera indiretta come traccia virtuale del punto di vista postumo del ragazzo - non è tanto il contenuto del riconoscimento, quanto il riconoscimento stesso come forma del sapere.

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Presence

Proprio come nel finale di Here – dove l’agnizione in merito alla propria identità corrisponde a un ricordo d’amore – anche in Presence “conoscere significa ricordare”. La vera rivelazione del film riguarda quindi il ruolo potenziale del linguaggio digitale rispetto alla possibilità di una coscienza e archiviazione storica: per lo spettatore, il piano sequenza che corrisponde al corpo e allo sguardo del fantasma non coincide alla fine con una forma del tempo morto, impasse metafisica senza uscita con cui teorici culturali come Laurent Berlant identificano il contemporaneo tardo capitalista post pandemico (la pandemia come trauma/effetto della globalizzazione), ma invece con una figura del tempo ritrovato, traccia cioè di un tempo perduto e ricordato – in un’asincronia che avrebbe emozionato Marcel Proust.

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Presence

In effetti la visione del digitale come traccia memoriale di Soderbergh da questo punto di vista ricorda la visione di Olivier Assayas (Personal Shopper), che ha sempre riconosciuto in Proust un modello per sostenere in senso umanista la sua svolta tecnologica del suo cinema. Quando il digitale, con la sua estensione numerica, viene plastificato, trasformato cioè in luce e movimento attraverso il cinema, smette di essere codice della ripetizione binaria e diventa invece presenza, esperienza estetica (aisthesis significa pur sempre sensazione) che dialettizza la vita e la morte in un flusso, un passaggio elusivo che il fotografico non riesce a catturare. Ecco perché in Presence non ci sono vere e proprie inquadrature ma solo attraversamenti: senza l’unità minima fotografica, Soderbergh cerca di liberare il cinema dal calco mimetico e ripensarlo come écriture, scrittura in movimento (in un’evoluzione genealogica della steadycam di Kubrick in Shining), simile forse al più generico indistinto flusso audiovisivo dei media contemporanei ma in realtà carica di un esponente riflessivo – a cortocircuito, paradosso temporale, in cui tutto si ripiega su di sé – inedito. Un modo per immaginare, dentro ai linguaggi del potere e del presente, nuovi punti di vista attraverso cui rimappare cognitivamente e percettivamente la realtà contemporanea, anche e soprattutto nei suoi aspetti invisibili.


Presence di Steven Soderbergh è nelle sale italiane con Lucky Red dal 24 luglio, potete consultare l’elenco dei cinema sul sito ufficiale: https://presence.alcinema.it/

Autore

Leonardo Strano

Leonardo Strano si è laureato in Filosofia dell’Esperienza Estetica con una tesi sull’inconscio ottico in Walter Benjamin e Jacques Tati (il suo regista preferito). Mentre prosegue gli studi in Teoria dell’immagine scrive per Filmidee, Pointblank e DinamoPress.

Il film

locandina Presence

Presence

Thriller - USA 2024 - durata 85’

Titolo originale: Presence

Regia: Steven Soderbergh

Con Lucy Liu, Chris Sullivan, Eddy Maday, West Mulholland, Julia Fox, Callina Liang

Al cinema: Uscita in Italia il 24/07/2025