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Venezia 2011, Giorno 10 - Venerdì 09/09: Leone d'Oro a Bellocchio, Texas Killing Fields, Life Without Principle, Tahrir 2011, Ki, La Clé des Champs, Alms of the Blind Horse e Century of Birthing
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Il Concorso arriva all’ultimo giorno. In attesa di sapere domani chi ha vinto il Leone d’Oro e i premi collaterali per cui si vocifera una en plein per Carnage di Polanski e Killer Joe di Friedkin, oggi a Venezia 2011 è la volta degli ultimi due titoli: spazio a Johnnie To e Ami Canaan Mann, la semiesordiente figlia di Michael Mann. Si festeggia, inoltre, il Leone alla Carriera a Marco Bellocchio.

 

 

Si comincia alle 9 in Sala Volpi con le Giornate degli Autori e la proiezione del film Valdagno, Arizona del Collettivo Pyoor, un viaggio che conduce dall’Italia alla scoperta degli Indiani d’America alle prese con il passato e proiettati verso il futuro:

 

Valdagno, Arizona (2011)

di Collettivo Pyoor con Umberto Marzotto

 

«Da un lato, si narrano il misticismo, le tradizioni, la cultura e l’etica degli Indiani d’America, dall’altro s’incontra una moderna società Nativo Americana progressista, eco-consapevole e ben organizzata, che guarda al futuro senza rimpianti».

 

 

 

 

Alle 11 in Sala Grande per il Fuori Concorso occhi puntati sulla situazione politica dei paesi dell’area mediterranea con i due corti Vanguards e The End del Collettivo Abounaddara:

 

Vanguards (2011)

di Collectif Abounaddara

 

«Il regime Baath si fonda su una singolare religione nazionalista che ruota attorno alla figura del “presidente eterno“, Hafez al-Assad. I giovani siriani si stanno ribellando a questa religione, rischiando di finire in pasto ai leoni. Il loro sacrificio porrà le basi della futura democrazia».

 

 

 

The End (2011)

di Collectif Abounaddara

 

«Tutti i bambini siriani in età scolare devono entrare nell’organizzazione “avanguardia del Baath“, creata nel 1974 sulla base del modello nordcoreano allo scopo di garantire la sottomissione delle nuove generazioni al regime di Assad. La scintilla dell’attuale rivoluzione democratica scatta tuttavia dalla stessa avanguardia, che scribacchia sui muri della scuola: Il re è nudo».

 

 

 

Fa seguito la proiezione del documentario collettivo Tahrir 2011, sguardo eccezionale che seguendo tre differenti punti di vista ci racconta la Rivoluzione egiziana di inizio anno:

 

Tahrir 2011 (2011)

di Tamer Ezzat, Ahmed Abdallah, Aiten Amin, Amr Salama

 

«Tamer Ezzat – Il Cairo, 21 marzo 2011: “La trasformazione degli egiziani mi ha colpito moltissimo. Soltanto qualche giorno prima del 25 gennaio erano un popolo apatico e sottomesso, ma nel giro di poche ore si sono uniti per il bene comune, diventando dei veri guerrieri“. 

Ayten Amin – Il Cairo, 21 marzo 2011: “Nel cuore di Piazza Tahrir sorgerà un monumento in ricordo delle vittime e dei martiri della rivoluzione egiziana. Mi piacerebbe sapere se recherà l’iscrizione ’Questi martiri sono stati uccisi dai proiettili dei poliziotti egiziani’“. 

Amr Salama – Il Cairo, 21 marzo 2011: “È stato un viaggio attraverso la mente di un dittatore, che ha sollevato domande e risposte su cosa lo abbia reso tale e come possiamo salvaguardarci dal crearne un altro“».

 

 

 

Sempre alle 11 ma in Sala Perla Orizzonti presenta Sonchidi di Amit Dutta, un viaggio surreale nel mondo della metempsicosi e della cultura indiana:

 

Sonchidi (2011)

di Amit Dutta con Nitin Goel, Gagan Singh Sethi

 

«Si tratta di un film molto personale, costruito come un diario. Essendo stato realizzato da un gruppo di amici, il modo in cui lo abbiamo realizzato è stato tanto importante quanto l’argomento stesso; credo che ciò si rifletta proprio nella forma che il film ha preso. Ed essendo stato prodotto con un budget prossimo allo zero, non ci siamo sentiti limitati da alcuna condizione».

 

 

 

Poesia e natura aspettano bambini e famiglie alla proiezione delle 15in Sala Grande per Fuori Concorso del film francese La Clé des Champs di Claude Nurisdany e Marie Perennou, ideale seguito del magico Microcosmos realizzato qualche tempo fa dagli stessi registi:

«La Clé des champs è una vera e propria fiaba. Lo stagno – questo luogo che i protagonisti hanno scelto come paradiso incontaminato, rifugio remoto dal mondo degli adulti – diventa uno specchio magico tramite il quale scoprono esseri misteriosi che li restituiranno alle loro vite di partenza. Attraverso gli occhi dei bambini, lo stagno si trasforma in un oceano abitato da creature straordinarie… creature che insegneranno loro la leggenda della vita, una vita nuova che dovranno capire e addomesticare. Grazie all’amore per quel regno, i due protagonisti usciranno dalla solitudine, scoprendo a poco a poco l’amicizia».

 

 

Le Giornate degli Autori alle 16 in Sala Darsena offrono il film polacco Ki di Leszek Dawid, commedia drammatica che affronta ancora una volta il tema della maternità, fil rouge degli ultimi giorni:

//www.filmtv.it/film/46493/ki/

«Ki è un ritratto cinematografico. È una storia su come maturare per diventare responsabili verso noi stessi e coloro che ci stanno intorno. La protagonista – Ki – non accetta l’idea che il doversi prendere cura di un figlio comporti dei limiti. Con destrezza affida il figlio ai suoi amici. Lei ama il bambino ma, al tempo stesso, vuole realizzarsi altrove. Evade nel mondo esplosivo, mutevole, scintillante, da cui si sente attratta. Miko, che incontra lungo la strada è come un polo opposto che non raggiungerà mai. Nondimeno, questo polo è magnetizzante e intrigante. 

Questo film delicato, ironico e dal finale aperto è in realtà un urlo. Ma non un grido della rivoluzione femminista. Ki, madre single di un bambino piccolo a Varsavia, è la parodia della "donna emancipata". Pretende aiuto dagli altri, ma nel profondo è sola. Le donne che l'aiutano non sono diverse. E nemmeno gli uomini, che formano una casta di neurotici, inadatti a relazioni durature e a formare una famiglia. Ci sono due personaggi eccellenti in questo film: Roma G?siorowska e Adam Woronowicz. Lei è energica, coraggiosa e saggiamente stupida. Supera le sconfitte e va avanti. Lui è auto-sufficiente. Non si lascia coinvolgere nelle relazioni. Quando richiesto interpreta il marito, ma solo per poi tornare nel suo rassicurante isolamento. Come possono essere adatti l'uno all'altro?».

 

 

Orizzonti torna anche alle 16:30 in Sala Perla con la proiezione del documentario Two Years at Sea di Ben Rivers, resoconto di due anni di vita ai margini della natura:

 

Two Years at Sea (2011)

di Ben Rivers con Jake Williams

 

«Ho girato un cortometraggio su Jake cinque anni fa e, con il passare del tempo e la realizzazione di altri film, ho continuato a sentire che dovevo tornare indietro, fare un altro film in cui, sia io che il pubblico, potessimo trascorrere più tempo intorno alla casa di Jake nella foresta. Vorrei che il film trasmettesse la diversa percezione del tempo che caratterizza Jake e il suo ambiente, che è molto più paziente e rilassata del mio vivere in città. Il film è incentrato sul rapporto fra una persona e il luogo in cui ha scelto di passare la vita, e sull’intimo legame che li unisce».

 

 

 

 

Alle 17 in Sala Grande si assegna il Leone d’Oro alla Carriera al regista Marco Bellocchio, che per l’occasione premiato da Bernardo Bertolucci presenta la nuova versione del suo film Nel nome del padre, in uscita oggi nelle sale, preceduto dal corto Marco Bellocchio – Venezia 2011 di Pietro Marcello:

 

Marco Bellocchio - Venezia 2011 (2011)

di Pietro Marcello con Marco Bellocchio

 

 

Nel nome del padre - Nuova versione (2011)

di Marco Bellocchio con Yves Beneyton, Renato Scarpa, Piero Vida, Aldo Sassi, Laura Betti, Marco Romizi, Amerigo Alberani, Gérard Boucaron, Edoardo Torricella, Tino Maestroni

 

«Il motivo per cui riprendo in mano Nel nome del padre con questa nuova versione non è per aggiungere, ma per sottrarre. Non accade spesso nel cinema perché solitamente la nuova versione di un film contiene sequenze che sono state tagliate nella prima versione per volontà del produttore che, contro il regista o d’accordo con lui, ha accorciato il film pensando che così potesse piacere di più al pubblico. Uno degli esempi è Apocalipse Now che preferisco nella versione più breve.

Non è stata un’idea fissa, niente di persecutorio, eppure in questi quaranta anni mi è tornata in mente, a intervalli vari, anche lunghissimi, l’idea, la convinzione che Nel nome del padre non avesse ancora trovato la sua forma definitiva.

Nel nome del padre costituisce un’eccezione, su tutti gli altri film non ho mai avuto di questi pensieri… È l’unico mio film su cui c’era questo conto sospeso…

La prima revisione fu dopo la prima proiezione dell’autunno del ’71 a New York dove ebbe una critica elogiativa sul New York Times che però faceva notare una sovrabbondanza di simboli, una drammaturgia imperfetta… E dal momento che Kim Arcalli era indisponibile con Franco Cristaldi e Silvano Agosti cominciammo a tagliare licenziando così la versione presentata all’antifestival di Venezia del ’72.

In quegli anni si usciva da un’illusione e da una sconfitta ancora senza morti e feriti, ma che preparava a una profonda generale depressione con esiti diversi: il terrorismo, la droga, la psicanalisi, il ritorno all’ordine. Per me dopo la negazione della mia identità di artista (borghese) nei mesi della militanza marxista-leninista, ritornare al cinema fu, in un certo senso, una salvezza personale (la sopravvivenza al nulla), raccontando però in Nel nome del padre per il mio stato d’animo di allora, una società finita, nella metafora di un’istituzione chiusa: il collegio religioso (più che un carcere un manicomio). Ritornare in prigione era la dichiarazione della mia sconfitta rinchiudermi volontariamente in un’istituzione mediocre, violenta a cui avevo cercato di ribellarmi negli anni precedenti senza successo, riconoscendo soltanto ai servi, ai sottoproletari una simpatia, una solidarietà a cui mi sentivo obbligato per i miei sensi di colpa di borghese privilegiato, di uomo senza stima verso se stesso. I servi (i vinti) sono gli unici personaggi che non sono visti con disprezzo. Anche loro sconfitti. Estremo pessimismo.

Per quel sentimento, per quella inconsapevole disperazione volli dire tutto. Troppe parole. Concetti, messaggi… Immaginare liberamente allora era proibito, inconcepibile, per cui oggi, che sono molto più libero di allora, tante immagini piene di parole che giudicavano, che spiegavano, ripetevano le spiegazioni, citavano, sono cadute. Molta cultura, figlia di quegli anni in quest’ultima versione è stata almeno contenuta a favore della storia, dei personaggi, dei loro rapporti sentimentali… Ho tagliato, accorciato, non ho aggiunto nulla.

Ho voluto liberare le immagini cercando di privilegiare quanto di lieve, di caldo, di paradossale, di surreale anche di crudele - senza essere gratuitamente sadico – di sarcastico, di raramente affettivo c’era nel film.

Beninteso il film, per quei pochi che si ricorderanno della prima versione italiana che è poi già la seconda versione, non è cambiato nei contenuti o nei significati, non è stato addolcito in alcun modo, non è meno violento, si può dire soltanto che in questa versione definitiva Nel nome del padre fa pensare un po’ meno a Brecht e un po’ più a Vigo, ben lontano comunque dalla sua innocenza…

Ogni opera si misura col tempo. Quando scrivi rispondi ad un preciso momento. Quanto poi un film del genere possa colpire lo spettatore di oggi non lo so… Il film è quello di 40 anni fa. Ora è solo più libero, ma ha conservato tutto il suo pessimismo. Oggi è un tempo politicamente disperato. Quanto lo spettatore che non era neanche nato nel 1971 possa ricollegarlo al presente lo vedremo a Venezia».

 

 

In Sala Volpi alle 17:30 in omaggio alla recente morte del regista indiano Mani Kual si proietta Duvidha, versione filmata di una famosa fiaba indiana:

 

Duvidha (1975)

di Mani Kaul con Ravi Menon, Raisa Padamsee

 

«Negli ordinamenti sociali feudali era opportuno rispondere all’oppressione come fenomeno interiore, poiché la struttura sociale esterna era rigida e e immutabile. Una violenza interiorizzata pervadeva il mondo del mito immaginato e vissuto. Col tramonto dell’ordine feudale, la realtà esterna si manifestò in tutta la sua violenza, abbattendosi sul paesaggio sociale. Il percorso dell’individuo nella società divenne di colpo incerto. Con il collasso di un mondo ormai obsoleto, i miti più antichi e complessi appaiono oggi privi di significato… la massa è ormai incapace di volontà: nulla si muove. Una nuova astrazione».

 

 

 

Alle 19 in Sala Darsena Orizzonti offre il titolo fiume Century of Birthing di Lav Diaz, due storie parallele che si incrociano per raccontare il cinema e le tradizioni di un Paese:

 

Century of Birthing (2011)

di Lav Diaz con Angel Aquino, Joel Torre, Perry Dizon, Hazel Orencio, Roeder Camanag, Soliman Cruz, Dante Perez, Modesta

 

«Homer, il regista protagonista del film dice: “Con il cinema facciamo rivivere i nostri ricordi. Con il cinema possiamo perfino reinventare quei ricordi. Con il cinema ricordiamo il passato, il presente e il futuro… adesso. Il cinema ci riporta al passato, al presente e al futuro… adesso. Grazie al cinema ricorderemo il mondo“. Poi aggiunge: “Cinema significa esistere“».

 

 

Alle 19 vi è anche l’assegnazione in Sala Perla del premio Persol a David Zamagni con la proiezione dei 4 corti EvolutionJoule e il dittico Spell:

«La mia opera video si avvale di filmati ritrovati e quindi montati, stratificati e collegati per creare narrazioni astratte. Evolution (Megaplex) è un videocollage 3D che racconta la storia umana ponendo enfasi sul conflitto tra le diverse epoche. Si tratta di un remix visivo che si sposta attraverso il passato, il presente e il futuro simulando il sovraccarico sensoriale dei film contemporanei girati in studio».

 

Joule (2011)

di David Zamagni, Nadia Ranocchi con Cristiana Capelli, Maria Sole Ugolini, Fabrizio Fabbri

 

 

Spell: Suite (2011)

di David Zamagni, Nadia Ranocchi con Li Wellong, Paolo Bisi, Eleonora Amadori

 

 

Spell: The Hypnotist Dog (2011)

di David Zamagni, Nadia Ranocchi con Werner Hirsch, Monaldo Moretti, Nadia Ranocchi, Chimera

 

 

 

 

Attesa alle 19:30 in Sala Grande per la regista Ami Canaan Mannche, benedetta dal padre Michael, presenta in Concorso Texas Killing Fields, il titolo più noir della rassegna con una fotografia che ricorda da vicino i migliori lavori del genitore e in sala dal prossimo 7 ottobre:

 

Le paludi della morte (2011)

di Ami Canaan Mann con Sam Worthington, Jeffrey Dean Morgan, Chloe Moretz, Jessica Chastain, Stephen Graham, Annabeth Gish, Jason Clarke, Sheryl Lee, Leanne Cochran, Sean Michael Cunningham

 

«Ai margini di una piccola cittadina chiamata Texas City, situata trenta minuti a sud di Houston, sono stati trovati i corpi di quasi sessanta vittime di omicidio. Alcuni di donne, altri di ragazze, prostitute, scolarette. Tutte vittime di assassini diversi. Tra la gran quantità di documentazione che corredava la straordinaria sceneggiatura di Don Ferrarone ho trovato una mappa allegata all’articolo di un quotidiano locale. Mostrava i volti delle vittime vicino a dove erano stati trovati i loro corpi. Capelli lisci stile anni ’70, frangette anni ’80, striati alla anni ’90. Decenni di ragazzine che si fanno il trucco e i capelli la mattina del loro ultimo giorno di vita, ignare che l’immagine che vedono allo specchio finirà anni dopo su una mappa delle vittime nelle mie mani. Molte sono foto di scuola. Gli occhi puntati dritti verso l’obiettivo, come si fa quando ci dicono di sorridere a scuola nel “giorno delle foto“. Su quella mappa, sembrano bei volti di fantasmi i cui occhi ti trapassano, alla ricerca di una voce. Ed è questa realtà, credo, che ha spinto me, il cast e la troupe a cercare di raccontare una storia difficile nel modo più elegante possibile. Come raccontare la loro storia? Come dare voce a coloro la cui voce è stata soffocata?».

 

INTERVISTA AD AMI CANAAN MANN

 

 

Cosa ha fatto per prepararsi?

 

Prepararmi a girare questo film ha significato fare ricerche sui tanti aspetti della storia. Ho passato parecchio tempo con i detective della omicidi della LASD; sono andata all’obitorio di Los Angeles; sono stata a Texas City e nella prigione di Angola in Louisiana. Sam, Jeffrey e Jessica hanno fatto lo stesso. Chloë, James e Sheryl hanno trascorso del tempo in un centro di recupero per tossicodipendenti, mentre Jason Clarke ha voluto incontrare un uomo condannato per crimini sessuali per poter comprendere cosa lo aveva spinto a compiere simili atti.

Nonostante i crimini mostrati nel film siano un mix di finzione ispirato a vari aspetti degli oltre cinquanta casi dei Texas Killing Field, tutti noi eravamo consapevoli di raccontare una storia profondamente legata a eventi reali e drammatici. Mi è sembrato quindi fondamentale che sia io che gli attori ci avvicinassimo con rispetto a questa realtà cercando di comprenderla il più possibile: se siamo riusciti a raccontare la storia dei Texas Killing Fields in modo autentico, forse riusciremo a risvegliare l’interesse per i tanti casi irrisolti.

 

Ci può spiegare le tecniche adottate per ritrarre alcuni personaggi in un certo modo? Per esempio, non sappiamo se provare compassione o meno per Lucie. Invece, Anne è decisamente troppo matura per la sua età.

 

Sono stata veramente fortunata a poter lavorare con un gruppo di attori davvero intelligenti e di grande talento: si meritano tutti grandi riconoscimenti per la capacità di rendere attraverso le sfumature i personaggi che interpretano. Io credo che Lucie fosse, a un certo punto della sua vita, una bella ragazza con grandi ambizioni e speranze. Sheryl ha svolto un lavoro incredibile nel lasciarci intravedere chi fosse quella ragazza, anche quando sullo schermo compare la donna e la madre che è diventata.

E’ vero, Anne è troppo matura per la sua età, ma non è assolutamente cinica, come Chloë ben rende nella sua interpretazione. Non si hai mai la sensazione che Anne sia consapevole di quanto sia brutta la sua situazione: se così non fosse non potremmo provare per lei la stessa compassione .

 

C’è qualcosa che le fa provare rispetto o empatia per le persone ritratte in questo film?

 

Certo, rispetto e provo una profonda empatia nei confronti di tutti i personaggi. Nessuno di noi è completamente buono o cattivo. Nella vita di tutti i giorni facciamo delle scelte perché riteniamo che siano quelle giuste. La domanda che mi pongo sempre è: perché le persone fanno alcune scelte piuttosto che altre? Come ci arrivano? Quali sono i loro criteri? La mia idea è che ponendosi queste domande si possono raccontare delle storie interessanti.

 

Il paesaggio gioca un ruolo importante in Texas Killing Fields. Può spiegarci come lo ha sfruttato per raccontare la storia? 

 

I veri Killing Fileds sono una vasta porzione di territorio poco fuori da Texas City, dove sono stati trovati i cadaveri, e sono comunemente noti come Texas Killing Fields. Una delle cose che mi ha colpito quando siamo andati in alcuni dei luoghi dove furono commessi questi crimini, è che da lì si vedevano una serie di raffinerie ed erano solo pochi chilometri fuori città. Questi posti mi hanno fatto pensare a una casa infestata: un luogo inquietante a due passi da tutto ciò che ci è familiare. Accadono cose strane e non sappiamo il perché. Siamo curiosi, ma anche spaventati.

Quando assieme a mia sorella Aran Mann, la nostra scenografa, abbiamo iniziato a fare sopraluoghi per la scelta delle location in Louisiana, ci siamo imbattute in queste ampie zone contrassegnate da alberi strani e scheletrici, meravigliosi e inquietanti. Ci è stato detto che era quello che rimaneva di una folta foresta: a causa del riscaldamento globale il livello del mare si era alzato e l’acqua salata era penetrata nel terreno. Sono rimasti soltanto questi alberi scheletrici che colpiscono per la loro tragica bellezza e che sono diventati la cifra distintiva dei Killing Fields.

 

Quali sono le sue influenze cinematografiche e come l’hanno aiutata a realizzare questo film?

 

 L’ispirazione maggiore sono stati gli eventi reali che hanno ispirato la storia di Don: le vittime, la città, i colpevoli e gli stessi detective.

Tutti noi siamo rimasti colpiti da questi due uomini così diversi e dalla ragazzina che li attira nel vortice della storia. E credo anche dalla possibilità di ridare voce, in maniera misteriosa, alle persone a cui era stata tolta.

 

Che messaggio vorrebbe che le persone cogliessero vedendo questo film?

 

Fate attenzione.

 

Ci può parlare della sua carriera nel mondo del cinema e cosa l’ha spinta a diventare regista? 

 

Sono cresciuta a Dayton, in Indiana, dove il cinema e i libri non rappresentavano un punto di riferimento, se non per me e mia madre. Poi c’era la città, i vicini e le loro storie, le cose che noi ragazzini abbiamo visto, sentito e di eravamo a conoscenza, perché soltanto i ragazzi sanno alcune cose. C’erano delle situazioni belle o terribili che condividevamo in silenzio.

Sono stata coinvolta per la prima volta nel lavoro di mio padre grazie alla sua serie televisiva Crime Story. Lui all’epoca stava girando L’ultimo dei mohicani e io collaboravo come assistente alla produzione nel reparto artistico. Avevo sedici anni e venivo pagata 40 dollari a settimana, che all’epoca mi sembravano una fortuna. L’esperienza mi ha cambiata e mi sono innamorata di questo mondo.

In sostanza, crescere in Indiana mi ha ispirato e fatto venire voglia di raccontare delle storie. Il fatto di lavorare con mio padre ai suoi film e alle serie televisive mi ha portato a riflettere sul modo in cui potevano essere raccontate queste storie.


 

 

 

 

Alle 19:30 in Sala Volpi per le Giornate degli Autori si può assistere al documentario Oro negro - Terra sublevada II del regista argentino Fernando E. Solanas che torna a occuparsi della crisi argentina susseguitasi alla privatizzazione delle industrie petrolifere:

 

Oro negro - Tierra sublevada parte II (2011)

di Fernando E. Solanas

 

«Oro negro, è nato con le stesse motivazioni degli altri cinque film che compongono il sestetto “Crónicas de la causa Sur”: costruire una memoria contro l'oblio e promuovere una riflessione e un dibattito sulle principali questioni argentine. In tutti i film ho provato a far venire alla luce la realtà taciuta del paese, unendo la denuncia con la riflessione, cercando un riscatto per un’umanità composta da personaggi caduti in povertà e nell'oblio dell’anonimato».

 

 

 

Dall’India alle 21 in Sala Perla e per Orizzonti si proietta Alms of the Blind Horse, adattamento dell’omonimo romanzo dello scrittore Singh per mano del figlio:

«Il volto umano è un paesaggio. La realtà vissuta del volto riflette il tempo: sopportato, vissuto e sofferto. Il cinema svela il tempo attraverso il movimento nello spazio. Il visibile evoca l’invisibile attraverso relazioni, contesti, gesti, conflitti. C’è l’immediato invisibile, fuori campo: l’immagine rispetto al suono, lo spazio rispetto allo spazio, il tempo rispetto al tempo. Esiste poi il più ampio invisibile cosmico, privo di un paradigma causa-effetto, stratificato nei secoli. Il visibile è l’effetto immediato, la causa misteriosamente nascosta sotto questi strati. Anhey ghorhey de daan cerca di evocare l’effetto di anni di sottomissione delle classi proletarie, riflesso nel macrocosmo di eventi che sfuggono al loro controllo. Tratta di testimoni silenziosi, impotenti a cambiare o influenzare il corso del proprio destino; tratta della violenza invisibile del potere, e del malcontento latente riflesso sui loro volti».

 

 

 

Chiude la giornata alle 22 per il Concorso in Sala Grande Life without Principle di Johnnie To, che dopo la sfortunata parentesi della commedia romantica passata quasi inosservata al Far East di quest’anno si ripresenta con i temi violenti a lui tanto cari:

«Viviamo in un mondo turbolento. Per sopravvivere, la gente non può fare altro che stare al gioco. Per quanto ci si sforzi di seguire le regole, prima o poi si finisce per perdere una parte di se stessi».

 

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