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Per il gusto di uccidere

Regia di Tonino Valerii vedi scheda film

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La recensione su Per il gusto di uccidere

di scapigliato
8 stelle

Siamo proprio agli albori, ai primi vagiti del grande western all’Italiana. Tonino Valerii, collaboratore di Leone fin dalle prime battute western, passa ora alla regia con “Per Il Gusto di Uccidere”. Non solo il film vanta un cast tecnico apprezzabile, Valerii alla regia, Carlo Simi alla set decoration e Nico Fidenco alle musiche, ma vanta un cast di volti noti dello spaghetti western: dal protagonista Craig Hill, in uno dei suoi ruoli migliori, fino alla caratterizzazione veloce di Fernando Sancho, passando per George Martin, Rada Rassimov, José Manuel Martín, Franco Ressel, Lorenzo Robledo, George Wang e il grande Piero Lulli accreditato come Peter Carter. Se tutti passano più o meno inosservati compiendo bene la propria caratterizzazione, l’orientale George Wang è invece è una bella novità nel panorama western italiano, tanto che apparirà in altre pellicole più o meno riuscite, più o meno cult. George Martin se la cava bene, e Craig Hill va per sottrazione come gli compete seguendo le orme dell’antieroe eastwoodiano. Peccato per Piero Lulli, imbalsamato nel ruolo del possidente minerario, per giunta non cattivo. Ma il suo volto e la sua presenza scenica non gliela toglie nessuno e incide anch’egli sulla riuscita della pellicola. Una pellicola che esordisce con un incipit fordiano, a detta di alcuna critica, per passare di colpo ai segni dello spaghetti western con un bounty killer che guarda da lontano lo svilupparsi di una rapina che potrà poi renderlo ricco. Io non sarei così sicuro che l’incipit di “Per il Gusto di Uccidere” sia solo una veloce citazione al western classico americano e basta. In questo lungo piano sequenza in cui la silohuette di un pistolero solitario percorre controsole il crine di grosse dune del deserto è affascinate e di estremo valore per il western tutto. La divisione, necessaria anche se a volte forzata, tra western americano e all’italiana non si basa su questi elementi, ma su altri, di cui poi il film di Valerii è pieno: l’antieroe eastwoodiano di poche e laconiche parole che fa solo il suo gioco; le morti iperreali; l’ostentazione di una spietatezza senza appelli; il gusto per le bizzarrie; l’ambientazione fronteriza (nonchè spagnola); la scarsa presenza femminile; l’assenza di indiani; il tema dell’oro, e così via. Tutto fa piuttosto pensare ad una navigazione personale nei temi e nei luoghi del western all’italiana partita però da un codice ben preciso: quello leoniano, di cui Valerii ne è l’epigono migliore. Se tutto il western ha come primo referente l’ambiente in cui vivono i personaggi, questo approccio certo non manca al western italiano che ha fatto del paesaggio il secondo protagonista dei suoi film: il deserto almeriense come la Monument Valley in John Ford. Ecco che quel bellissimo inizio in controluce non è solo un incipit fordiano, se vogliamo, ma anche un elemento fondamentale del cinema western e dello spaghetti in particolare.
Il villaggio in cui si ambienta il grosso della vicenda è la famosa El Paso di “Per Qualche Dollaro in Più”, di cui è riconoscibilissima la banca, luogo catalizzatore delle vicende. Ma oltre alla storia generale che detta i ritmi narrativi, ci sono degli inserti slegati dalla trama principale che abbelliscono per resa e per significato immaginifico, l’intero film: vuoi tutto il prologo con protagonista Fernando Sancho, vuoi il duello nel saloon con il texano da 8.000 dollari, vuoi il sub-plot che coinvolge Rada Rassimov e il bambino o la figlia dello sceriffo con un giovane della banda dei banditi. In più passano di diritto nella memorabilia dello spaghetti-western anche la diligenza blindata e il fucile con cannocchiale di Craig Hill. Quest’ultimo aggeggio è poi, oltre che arma non convenzionale, anche un segno esterno con cui decifriamo l’interno del protagonista. La sua distanza verso i fatti che lo coinvolgono è la distanza morale che lo rende amorale e non immorale. Non è un gioco di parole, ma un chiarimento importante. Amoralità ed immoralità non vanno confuse ed è bene tenerle separate anche sul piano narrativo. Come si nota facilmente, Craig Hill “lo spilungone” usa il suo fucile più per guardare che per sparare. Un suo prolungamento nel mondo che gli permette di starsene tranquillo da un’altra parte, ovvero da quella parte dietro il mirino, da cui guarda, osserva, decide e manipola il mondo dell’altra sponda. Significativo il duello finale, che già di per sé sappiamo essere la risoluzione di due opposizioni esistenziali, qui addizzionato dal significato del fucile che i due duellanti si scambiano. Craig Hill centrerà il mirino colpendo all’occhio e uccidendo il bandito che sta dall’altra parte, quella che di solito è la sua. Un gesto quasi peckinpahniano ante-litteram, di autodistruzione cercata ma non raggiunta, di resa, o finta resa, visto che poi lo ritroviamo proprio da quella parte del mirino ad osservare un nuovo assalto alla diligenza. La circolarità degli eventi trova nel finale la sua chiosa perfetta.

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