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J'enrage de son absence

Regia di Sandrine Bonnaire vedi scheda film

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La recensione su J'enrage de son absence

di EightAndHalf
7 stelle

L’incipit in medias res è il primo indizio nella strada verso l’ossessione, con lo sguardo di William Hurt che un po’ fissa il bambino che ha poggiato la testa sul cofano della sua macchina un po’ guarda il vuoto, circondato dalla nuvoletta del fumetto che mostra gli indecifrabili codici del suo pensiero. Colmare le assenze perdurate nel tempo e mai celate dall’oblio è un atto di vertiginosa ostinazione priva di requie e di possibilità alcuna di redenzione, è un fatto malsano, “malato”, il genere di costrizione che rende il dolore l’unico legante fra gli esseri umani. L’infanzia e l’innocenza non hanno neanche loro modo di liberarsi dagli stretti vincoli tentacolari dell’infelicità che l’assenza genera, quando quell’assenza fa scordare di tutto il resto e la vita all’infuori di quello che è un vuoto e nient’altro diviene fumo inutile e dispersivo, quello sì un ricordo che si vorrebbe lontano. Ma il passato ritorna, perché lo si è vissuto o perché lo si vede reincarnato in qualcuno, e non sono certo gioie se quello stesso ritorno indietro scandisce i passi verso il proprio autoannullamento, nel grigiore appassito del presente. Questo inaridirsi delle personalità va di pari passo, in J’enrage de son absence di Sandrine Bonnaire, con l’intensificarsi della storia, che sfiora il thriller ma si mantiene più sui binari del dramma familiare che sembra non offrire nulla di nuovo, ad un primo approccio. Il lavoro sulla regia è tutt’altro che superficiale o immaturo, però, anche se a tratti sembra imitare un po’ frettolosamente certo grande cinema francese da Chabrol in giù: in particolare il montaggio è notevole, svelto come la prima mezz’ora che vola densa di cambi di rotta, rapido in certi momenti anche quando sembra non essercene la necessità, veloce così come inesorabilmente è veloce il percorso verso la clausura e il proprio apparente suicidio (“solo chi è morto dorme sottoterra”). Il film della Bonnaire è tutto un’attesa con climax verso il finale, con il suo stridore di archi e di orchestra, una non-storia dall’evidente filo narrativo che semina un po’ di incertezze e cerca con questo di giustificare la leggera piattezza dei personaggi. Ma il film rende palpabile il processo di emotiva metamorfosi che trasforma l’uomo illuso in uomo solo, la giovinezza allegra in triste infanzia, la tranquilla quotidianità in mesta rassegnazione. I pianti che aumentano in J’enrage de son absence non sono la campanella d’allarme di un melodrammone strappalacrime, ma sono il richiamo della stranezza dei rapporti umani, che tradiscono la loro scorza di normalità per delle pulsioni incontrollate possibilmente nate, anch’esse, dalla nostalgia e dal sentimento. Il legame di sangue e il legame legale perdono importanza, a nessuno si attesta ciò che si prova, ma (ci) si chiude in cantina, si tengono per sé i propri dolori, e si getta via la chiave.

 

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