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Off the Black - Gioco Forzato

Regia di James Ponsoldt vedi scheda film

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La recensione su Off the Black - Gioco Forzato

di degoffro
7 stelle

Dopo una partita di baseball persa, con conseguenti playoff sfumati, complice una contestata decisione dell’arbitro Ray Cook, il giovane liceale Dave Tibbel, con due suoi compagni di squadra, decide di vendicarsi, compiendo atti vandalici, di notte, nel cortile della villa di Ray. Sorpreso da Ray, il ragazzo viene condotto in casa. Anziché denunciarlo alla polizia, Ray cerca di far capire a Dave le sue responsabilità e lo invita a ripresentarsi il giorno successivo a ripulire il cortile devastato. Ben presto tra il vecchio arbitro, sfatto, scontroso, irascibile e con forti problemi di alcolismo, ed il giovane e riservato Dave si stabilisce un rapporto paterno di confidenza ed amicizia, tanto che Ray chiede a Dave, per saldare definitivamente il suo debito, di accompagnarlo ad un raduno di ex compagni di classe, fingendo di essere suo figlio (“La gente preferisce la finzione alla realtà!”). Il ragazzo, dopo un’iniziale perplessità, accetta.

 

 

L’esordio alla regia di James Ponsoldt è un classico film di formazione, non nuovo, prevedibile nei suoi sviluppi, senza particolari ambizioni, ma onesto e soddisfacente nella sua lineare semplicità (migliore del successivo “Smashed”, impostato sui medesimi toni agrodolci, realistici e quotidiani, ma più meccanico e convenzionale). Costruito sull’interpretazione ammirevole di un sempre immenso Nick Nolte, perfetto nei panni di un uomo solo, infelice e derelitto, un passato in Vietnam nell’aviazione, amante della pesca, schiavo del bere (tema poi centrale in “Smashed” con protagonisti due alcolizzati) e divorato da una malattia terminale, un vero e proprio rottame (non credo sia un caso che lavori in un’officina di demolizione auto), “Off the black” ha la sua carta vincente nella solida e convincente definizione dei due personaggi principali e nella conseguente complicità che tra gli stessi si instaura. Accanto al gigante Nolte, la vera sorpresa è Trevor Morgan, capace di una prova di rara sensibilità. Il suo Dave, talento del baseball, passione per l’archeologia, unico punto di riferimento per la sorellina, conquista con la sua gentilezza e generosità, il suo senso di responsabilità ed il suo timore, a volte, di sentirsi un fallito (“Non sei il solo!” gli dirà per consolarlo Ray). Non privo di difetti (la molla che fa scattare d’improvviso la fiducia di Dave in Ray resta ignota), è sviluppato in modo banale il personaggio del padre di Dave (un dimenticato Timothy Hutton), di professione fotografo, abbandonato dalla moglie ed incapace di superare il dramma, tanto da risultare del tutto assente, anche e soprattutto rispetto ai figli nei cui confronti l’unica impacciata raccomandazione in grado di fare è “Ricordate di non cacciarvi nei guai!” suscitando un comprensibile sorriso di compatimento in Dave, il finale è affrettato e il ricorso ad un messaggio registrato di Ray su vhs, consegnata a Dave, è scontato. Ponsoldt, anche sceneggiatore, però è bravo a fermarsi prima di eccedere in un fiacco sentimentalismo, attento a seguire con discrezione e misura, evitando facili espedienti ricattatori e prendendosi i suoi tempi, che ai più possono sembrare lenti, l’evolversi di un rapporto a due sempre più carico di affetto e reciproca stima, nella condivisione di un comune senso di inadeguatezza e solitudine, affidandosi, con umiltà ma anche con fermezza, a due attori in commovente sintona, la cui prova risalta ancor di più attraverso lunghi ed intensi primi piani. Alcuni episodi del racconto sono indovinati (la visita al padre di Ray, malato di Alzheimer, che non riconosce il figlio, ma il nipote acquisito, il raduno in cui Dave si diverte a fingere di essere il figlio di Ray, inventandosi anche improbabili storie sul passato del padre con i vecchi compagni di Ray), curioso, ma poco sviluppato, è il personaggio di Debra (la brava Rosemarie DeWitt), diabetica con figlio a carico, amica di Ray, rispetto alla quale si lasciano diversi punti interrogativi (così come non si spiegano le ragioni per cui la madre di Dave ha abbandonato la famiglia, il che non è necessariamente un elemento negativo), esilarante il commento di Ray sul significato dei raduni (“La gente va a questi raduni di vecchi compagni di scuola per controllare quante rughe hanno, non possono farne a meno, devono scoprire chi è invecchiato peggio di loro!”). Nella memoria, però, resta soprattutto, l’ultimo, intenso e delicato, confronto tra Ray e Dave. A conclusione di una giornata, dopo troppi anni, finalmente felice, a contatto con il suo lontano passato, trascorsa con orgoglio a fianco di quel ragazzo che tanto avrebbe voluto avere come figlio, Ray, al di là dell’apparente ruvidità e freddezza con cui si congeda da Dave, rivela tutta la fragilità e la stanchezza di un uomo che riconosce di essere stato un pessimo genitore, segnato inesorabilmente da una vita dalle troppe sconfitte e sbandate, non all’altezza delle sue aspettative. Proprio in quell’ultimo, confidenziale, confronto notturno, sul volto sofferto, malinconico e consumato di Ray, si può ritrovare la dolorosa verità delle parole da lui dette in precedenza alla fidanzata del liceo, ritrovata al raduno: “Ho spezzato tanti cuori, ma ho spezzato anche il mio.

Voto: 6/7

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