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Bambino che non si ferma mai

Regia di Yasujirô Ozu vedi scheda film

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La recensione su Bambino che non si ferma mai

di OGM
6 stelle

Di questa commedia muta di Yasujiro Ozu è sopravvissuto soltanto un frammento di quattordici minuti, costituito dalle parti iniziale e finale della pellicola. Dalla pagina del sito ozu-san.com apprendiamo alcuni dettagli sui retroscena della realizzazione dell’opera.

 

Il suo dodicesimo film, girato nel novembre 1929. Ozu ricorda che lo terminò in tre giorni. Il soggetto originale era stato scritto da Nozu Chuji, uno pseudonimo  per un gruppo di quattro collaboratori: lo stesso Ozu, Noda Kogo, Okubo Tadamoto e Ikeda Tadao. Secondo Ozu e Noda, il progetto iniziale era farsi una bevuta di birra tedesca in un locale di Higashi-Ginza chiamato “Fliedermaus”. Avevano infatti ricevuto un anticipo da Kido Shiro, il capo della casa di produzione, dietro la promessa di scrivere una sceneggiatura. Tra un sorso e una chiacchiera, misero insieme una bozza del soggetto. Ikeda ne ricavò una sceneggiatura, e Ozu la mise in scena  in poco tempo.

 

Il film ha, come fonte di ispirazione, il racconto Ransom of Red Chief (1910) di O. Henry (pseudonimo dello scrittore americano William Sydney Porter, 1862 – 1910), il cui protagonista è un bambino davvero insopportabile. Quando due malfattori lo sequestrano per ottenere un riscatto, il piccolo li porta all’esasperazione, tanto da spingerli a pagare il padre affinché se lo riprenda.

 

La scena della restituzione del bimbo, che forse era il pezzo forte del film di Ozu, purtroppo non ci è pervenuta: faceva parte dei rulli centrali del film, che sono andati perduti. Ciò che resta è un piacevole siparietto, incentrato sulla figura di Aoki Tomio, il bambino attore che già era apparso nel precedente La vita di un impiegato (Kaishain seikatsu, 1929), e che, per i dieci anni a seguire, sarà uno degli interpreti fissi dei film di Ozu.

 

Atmosfera familiare ed ironia sono i tratti stilistici di questo cortometraggio, che risente dell’influenza delle coeve comiche statunitensi. Il ritmo è frenetico e lo spirito buffonesco, e su tutto domina uno sguardo binario che, però, sottende un’attenta analisi delle situazioni. Il monello che sfida i suoi rapitori scherzando e facendo i capricci è un folletto dispettoso e ribelle che, con il linguaggio delle filastrocche infantili,  sembra preludere a quei conflitti generazionali su cui si baseranno le principali opere successive del grande regista giapponese. Il modo in cui questo film ridicolizza gli adulti, maldestri e visibilmente incapaci di tenere testa a un bambino,  anticipa, in forma giocosa, quella critica che più tardi Ozu rivolgerà a tutte quelle forme di immaturità affettiva e sociale le quali, sopratutto nell’ambiente domestico, impediscono una serena convivenza. Tokkan kozo è un breve capitolo beffardo e curioso, scritto, come abbiamo visto, un po’ per caso, un po’ per scommessa, eppure perfettamente in linea con l’approccio paterno con cui Ozu, per tanti anni,  amerà ritrarre gli ordinari vizi e virtù dell’umanità del suo tempo.

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