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Sopra e sotto il ponte

Regia di Alberto Bassetti vedi scheda film

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La recensione su Sopra e sotto il ponte

di spopola
4 stelle

Pur avendo alle spalle la distribuzione dell’Istituto Luce, ha circolato poco e male nelle nostre sale quest’opera prima di Alessandro Bassetti (più conosciuto come autore di testi teatrali, compreso quello dal quale ha tratto l’ispirazione per questo film). La pellicola  è comunque facilmente reperibile per chi fosse interessato a recuperarla perché disponibile  in DVD , e visionabile anche in streaming.

Passata senza molta fortuna da alcuni festival internazionali come quelli di Montreal e di Annecy, Sopra e sotto il ponte è la classica pellicola piena di buone intenzioni che però alla resa dei conti, nonostante un soggetto tutt’altro che banale, non riesce a coagulare “in positivo” ciò che di buono e di interessante  avrebbe voluto (e potuto)  dire, e questo soprattutto per l’inadeguata consistenza di una messa in scena non ancora matura e totalmente “messa a fuoco”.

Rispetto a un altro contemporaneo debutto cinematografico (entrambi avvenuti nel 2005)  di un altrettanto importante autore del  teatro italiano  moderno come  Fausto Paravidino (mi riferisco  al suo interessante Texas) che aveva dimostrato di conoscere bene (e di possedere altrettanta competenza nel metterle in pratica) le differenze  esistenti proprio nelle modalità di rappresentazione di questi due mezzi espressivi che hanno qualche evidente affinità, ma molte più divergenze di “forma” di quanto può sembrare a prima vista poiché sul palcoscenico conta molto la parola, mentre lo schermo privilegia inevitabilmente l’immagine, Bassetti purtroppo non è riuscito a trovare altrettanta incisività, né il passo giusto e la necessaria mediazione fra le due cose, tanto che il difetto (e il limite maggiore) del film sta proprio nella sua eccessiva, ridondante “teatralità”  che  lo rende in po’ artificioso.

Il volonteroso esordio che sulla carta lasciava ben sperare, alla fine sembra così “cedere” sotto l’ingombrante, eccessivo peso dei dialoghi che a teatro davano la giusta dimensione anche “drammatica” al testo – non a caso vincitore  del premio G. Fava del 1995 – ma che risultano invece pleonasticamente quasi imbarazzanti in alcuni passaggi  di un’opera che rimane tutta concentrata su ciò che viene espresso “verbalmente” e non adeguatamente supportato  da una corrispondente forza della parte visiva capace di riscattarne alcune banalità che il cinema rende più evidenti e macroscopiche. Il neo-regista sembra infatti non conoscere a sufficienza (o comunque non avere altrettanta fiducia) nella prioritaria capacità (e importanza) “descrittiva” delle immagini, il che denota quantomeno una non completamente approfondita  e assimilata conoscenza dello “specifico filmico” e della potenzialità visionaria che “deve” possedere un’opera pensata per lo schermo, per acquisire una sua funzione autonoma e “necessaria”, perché in sua assenza diventa alla fine poco più di un teatro filmato senza estro, se come in questo caso, non trova sufficiente spazio la rappresentazione del “contesto”, inteso come la cornice  in cui si muovono i personaggi e le storie  (mi riferisco alla degradata e un po’ agonizzante  periferia romana che fa da sfondo agli avvenimenti, allo squallore  dei ponti – che non sono poi quelli sui fiumi, ma i cavalcavia  che si elevano al di sopra di strade e autostrade, polo attrattivo  per l’incontro e l’osservazione di drammatiche “solitudini” - e alla varia umanità che ci gira intorno, elementi importanti che purtroppo non vengono invece “valorizzati” a sufficienza).

La vita di un piccolo gruppo di giovani alla deriva e delle loro famiglie, rappresenta dunque il filo conduttore di avvenimenti e storie che si intrecciano fra loro, ma nel raccontarcele, Bassetti oltre che a far parlare troppo le persone con un eccesso di verbosità e di didascalismi che al cinema diventa disturbante, si limita semplicemente a “pedinare” da vicino i suoi protagonisti imponendo così alla narrazione un ritmo troppo blando e senza inventiva che risente pesantemente della sua evidente origine teatrale e ne denuncia tutti i limiti. Perché anche le parole che ascoltate in teatro avevano una oggettiva  forza coinvolgente,  “riprese” pari pari senza (quasi) mai traslarle anche attraverso l’efficacia delle immagini, diventano un dialogare “a vuoto” un tantino logorroico che ha il difetto di risultare  un po’ retorico e decisamente indigesto.

A guardar bene dunque, un testo già in partenza abbastanza difficile da adattare a “cinema” e che per “lievitare” davvero in questa nuova forma, avrebbe avuto bisogno di un regista più esperto e navigato, e soprattutto capace di osare di più. Ed è un vero peccato  che ciò non sia accaduto e che Bassetti abbia preferito “rischiare in proprio”, poiché in altre mani, sono certo, il film avrebbe davvero acquisito una potenzialità tale da consentirgli di prendere veramente il volo. Amputato invece com’è della spinta propulsiva  della creatività, non gli rimane altro che l’abbozzo di una rappresentazione esistenziale del problema certamente interessante, che nulla aggiunge (semmai sottrae qualcosa) all’efficacia del testo teatrale e che spesso finisce per spengerne la  forza vitale nella noia.

Infatti se per certi aspetti l’impianto narrativo di Sopra e sotto il ponte (comprese  le motivazioni e le “reticenze” comportamentali dei protagonisti)  può ricordare un pò alla lontana il cinema di Guédiguain (soprattutto quello che aveva Marsiglia come asse portante delle vicende, e in particolar modo La ville est tranquille), il risultato finale non è assolutamente confrontabile, non solo perché la Roma che ci viene fatta percepire è più sbiadita e inconsistente della “fondamentale” città portuale francese, ma anche  e soprattutto per le diseguali “qualità” introspettive e di scavo che si esplicitano principalmente nelle differenti capacità di utilizzo della macchina da presa  che è poi il mezzo principale con cui al cinema si definisce proprio “lo stile” e “la forma” di ciò che si racconta.

Il film (e la piece da cui è tratto)  è dunque la storia di sei personaggi che in qualche modo si incrociano nel depresso suburbio romano, una specie di diario che  più che raccontare, intende “denunciare” il male di vivere delle nuove generazioni di genitori e figli totalmente incapaci persino di dialogare fra loro, figuriamoci di comprendersi.

"Se continuiamo a dare ai nostri figli un mondo di frasi fatte e valori fintamente forti, come il successo, i nostri figli finiranno con il tirarci le pietre in testa”: è da questa riflessione – stando alle sue dichiarazioni – che sembra essere partito Alberto Bassetti per immaginare e costruire la storia e i dialoghi di Sopra e sotto i ponti, un’opera che oltre a “raccontare” l’incapacità di “saper ascoltare gli altri ” (un problema per altro che va ben oltre   quelli che sono i rapporti interpersonali della famiglia, perché alla fine riguarda il becero degradare “amorale” dell’intera società moderna) tira in ballo temi sociali e importanti  che oserei definire adesso universali in un “blaterare” costante di parole e luoghi comuni  su cui il regista gioca e riflette, ma senza riuscire a “riscattarne “ totalmente il senso critico che vorrebbe (dovrebbe) esprimere. Forse con un occhio a Pasolini per certe “estremizzazioni” qui però solo di superficie, il film si muove dentro le marginalità e il degrado  (raffronto improponibile comunque, perché in ogni caso manca totalmente la filosofia di vita dello scrittore al quale sembrerebbe voler fare riferimento, e soprattutto la  sacralità e la pietas della sua prosa).

"Io ho le palle!! Tu le hai?". E’ ciò che ripetono e si chiedono più frequentemente tutti i protagonisti di Sopra e sotto il ponte, una frase nella quale mi sembra si possa ravvisare chiaramente una dichiarazione di impotenza e di inadeguatezza  di chi cerca il riscatto nell’affermazione un po’ becera che spinge verso la ricerca di un successo facile e immediato (perché poi è proprio questo quello che sognano quasi tutti i personaggi “allo sbando” messi in scena): pensa forse di non averne a sufficienza di palle Alessandro, ragazzo introverso e sensibile, dichiaratamente disadattato, che vorrebbe affrancarsi dal suo essere nato ricco in un mondo di povertà e di soprusi che considera  pieno di ingiustizia e di contraddizioni (ma forse è solo  spinto a pensare di volerlo veramente fare da un velleitarismo ideologico che non trova poi riscontro nella capacita pratica  di portare davvero avanti azioni concrete in quella direzione), mentre se ne ritiene fornita a sufficienza la sua ragazza, Deborah, precoce ninfetta di periferia  che – incitata dalla madre adottiva – sogna invece di fare la ballerina in tv, per “acchiappare” così la  passeggera e un po’ effimera visibilità “espositiva” mediatica dei  lustrini, mentre invece è talmente immatura da non sapere ancora bene nemmeno di cosa deve farsene della vita che ha adesso, e che rappresenta la realtà più tangibile e concreta rispetto a un “futuro” soltanto vagheggiato: "Voglio fare l'attrice. (…) Ma che teatro! Quei quattro morti di sonno. L'attrice in tv o al cinema. Farò tanti calendari” sono le frasi salienti dei suo dialogare,  evidenti segnali di una deriva che ha raggiunto punte di una insostenibilità “morale” e sociale che ormai non riesce più nemmeno a far esprimere un giudizio riprovevole di disapprovazione se non proprio di condanna, tanto è diffusa e radicata.

Intorno a loro, gravitano anche il  fratello di Deborah, Valerio, diciassettenne dal carattere ribelle (anche lui però solo a parole), strafottente e aggressivo nelle enunciazioni, ma non certamente nei fatti (sogna la spider, spera nel superenalotto, e soprattutto aspira al “facile” guadagno senza fatica e magari poco pulito, chi se ne frega: basta che arrivi sufficiente grana!), la loro “madre” Roberta  che cerca di sopravvivere come può, persino prostituendosi nella sua casa dislocata in un dei tanti palazzoni grigi oltre i cavalcavia della città, e  il padre di Alessandro, Andrea, che ogni tanto se la scopa, ed  è un commerciante di oggetti sacri razzista e pieno di soldi, logorroico e saccente, che “comunica” col figlio (si fa per dire) solo attraverso l’ipocrita forma delle “frasi fatte” che nascondono solo la paura  di invecchiare dietro un atteggiamento falsamente amicale che maschera una profonda frustrazione per una virilità ormai in decadenza che sente minacciata dalla prorompente gioventù di Alessandro.

Sono dunque personaggi  che rappresentano punti di vista, stati culturali, sociali e  umani,  fortemente esasperati che rendono l’insieme di un intellettualismo saccente e  poco efficace.

Il film si apre e si chiude sulle immagini di Alessandro e Deborah  su un cavalcavia (luogo dove normalmente si incontrano ad osservare “il mondo”), in procinto di lanciare un sasso sulle macchine che passano di sotto(forse proprio su quella di Andrea), drammatico segno di estrema decadenza dei nostri tempi e delle nostre esistenze, che la datazione del film potrebbe far supporre essere un furbetto riferimento ai tragici fatti di Tortona, ma che è invece il “genuino” frutto di una inquietante “intuizione” dell’autore (era il 1995 l’anno il cui il dramma vide la luce, come ho già riferito) non ancora suffragata dalla crudeltà di una realtà effettiva incomprensibile e disturbante che si sarebbe concretizzata di lì a poco tempo, e che potrebbe quindi legittimamente aspirare ad assumere il valore di una terribile preveggenza un po’ divinatoria, anche se qui il “lancio” resta semplicemente un atto fortemente “simbolico” per un finale che rimane “volutamente” sospeso quasi a voler stigmatizzare, così come da “dichiarazione di intenti”, che anche le migliori intenzioni formative degli adulti, se “malamente” realizzate e ancor peggio concepite, possono tradursi in un vuoto totale  di “valori” e di prospettive, motivato da qualcosa di molto più profondo e doloroso del semplice salto generazionale, e che la delusione e il malessere che ne consegue, può portare  anche ragazzi in apparenza “positivi” come Alessandro, a decidere di scagliare (forse) quella pietra in un gesto estremo più di disadattamento che di ribellione.

Nemmeno i giovani attori che dovrebbero far vivere e palpitare sullo schermo i personaggi loro assegnati dimostrano però di possedere la necessaria profondità drammatica per esprimere interamente il disagio personale e sociale che li attanaglia (e questo aggrava ulteriormente la situazione) a partire dall’ancora acerbo Lorenzo De Angelis, visto anche ne L’odore del sangue di Martone, ma soprattutto con alle spalle un curriculum quasi esclusivamente di natura televisiva che gli nuoce molto,  che fa sembrare Alessandro più che un giovane tormentato, un vero e proprio ragazzo autistico. Analogo discorso di inadeguatezza “mal guidata” può essere fatto per l’esordiente Davide Rossi (figlio di uno “scomodo” padre come Vasco, cantautore dalla vita – una volta -  spericolata) che dà a Valerio movenze e toni troppo “caricati” probabilmente perfetti se si trovasse sulle assi di un palcoscenico, ma che al cinema risultano forzatamente artificiosi. Nei panni degli adulti (ri)troviamo poi una matura (e maturata) Isabel Russinova  (Roberta) e Giorgio Piazza (Andrea), mentre Clio Bassetti “dona” sufficiente “corpo” (ma non altrettanta vita) al personaggio di Deborah.

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