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À la recherche

Regia di Giulio Base vedi scheda film

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La recensione su À la recherche

di EightAndHalf
5 stelle

Giulio Base e Anne Parillaud devono scrivere una sceneggiatura che adatti La Recherche di Proust, e che forse verrà proposta a Luchino Visconti. Siamo nel 1974: a Cannes vince The Conversation ma tutti parlano di Mean Streets alla Quinzaine; alla radio si sentono notizie di attentati e Brigate Rosse; il mondo del calcio sta per essere attraversato dai mondiali. C’è un mondo là fuori, ma noi restiamo dentro, o meglio, è Base che ci tiene dentro ben ammanettati dentro la villa di Parillaud, il palcoscenico in cui la stesura dell’adattamento dev’essere portata a termine, e in cui la tv non c’è. À la recherche si interroga continuamente su questo isolamento – mediatico, artistico - sia come inevitabile arrocco di una nobiltà decaduta – e quindi come riflesso di certe descrizioni d’ambiente di Proust – sia come condizione inevitabile per la creazione poetica. I personaggi di Base e Parillaud non vogliono solo raccontare La Recherche, ma vogliono restituire al loro script cinematografico la natura metariflessiva di ode alla letteratura che pertiene il testo originale, e l’inesorabile circolarità proustiana del ricordo e della memoria, con un occhio alle reazioni dei critici, un occhio all’importanza di rendere il vanitoso Helmut Berger protagonista per non scontentarlo e un occhio al modo in cui possa fare breccia nel cuore del grande regista milanese, per convincerlo a realizzare quello che da più parti si dice essere il progetto della sua vita.

Base impila citazioni, riferimenti, battute, costringendo i suoi modi attoriali sopra le righe di fronte alla spietatezza brillante di Parillaud, sessantenne nel corpo di una quindicenne, incredibilmente seducente ma inavvicinabile. La stesura di un adattamento impossibile  è, in fasi alterne, alibi per un lungo corteggiamento intellettuale, anelata dissezione di un momento storico e animata riflessione sulla politica dell’arte e nell’arte. Ma il film tiene troppi piedi in una scarpa, e lo fa anche esteticamente quando tenta in tutti i modi di evacuare la via del teatro filmato – come se ci fosse qualcosa di male – con movimenti di camera inessenziali, di un virtuosismo cadaverico, dandy quanto i modi di Base nella parte di un parvenu debole e cascamorto. E si rimane noi, dall’altra parte, à la recherche del film che da questo pot-pourri si voleva tirar fuori, e che gioca troppo per provare davvero a rispondere alle sue domande sulla nobiltà dell’arte e sullo snobismo intellettuale – o anche solo a porsele responsabilmente. Un girotondo un po’ vano e con piccoli spiragli ridicoli, con effetti involontariamente stranianti e con sporadici attimi di tensione, interrotti dalla confusione e dall’ottusità di parlare di nulla, parlando di tutto.

 

 

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