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Lo ammazzò come un cane... ma lui rideva ancora

Regia di Angelo Pannacciò vedi scheda film

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La recensione su Lo ammazzò come un cane... ma lui rideva ancora

di moonlightrosso
3 stelle

Esordio povero e...pannacciano

Il folignese Elo (all’anagrafe Angelo) Pannacciò (1923-2001) è stato un personaggio che si è ritagliato senza ombra di dubbio un ruolo preponderante tra i cultori del cinema bis.

Un "edonista sfigato" come ebbe a definirlo il compianto caratterista Franco Garofalo in una recente intervista televisiva, che fece parte di una sparuta schiera di "factotum" del sottobosco cinematografico di casa nostra. Disponendo di minori mezzi e ancor meno soldi delle sgangherate factories dei vari Renato Polselli, Sergio Bergonzelli e Lorenzo Onorati, era solito remunerare attori e maestranze che lavoravano con lui con fasci di cambiali. Se i films incassavano gli effetti avevano una qualche probabilità di tramutarsi in moneta sonante; in caso contrario, come del resto quasi sempre accadeva, la carta filigranata non avrebbe potuto essere utilizzata, per durezza e spessore, nemmeno in toilette.

Glissando su altre amenità e al di là di notizie vere o presunte circa la sua biografia, sulla quale si è molto favoleggiato, questo anomalo artigiano del nostro cinema di genere (o meglio degenere) visse il suo periodo artisticamente migliore a cavallo fra gli anni sessanta e i settanta quando produsse con la sua “Universalia” due films di Luigi Petrini, all’epoca giovane e promettente cineasta.

Inserendosi nel filone inaugurato dallo chabroliano “Les biches”, insieme affrontarono in maniera fotoromanzata ma non totalmente becera il tema del lesbismo con due titoli di notevole impatto, almeno per l’epoca: “Così così più forte” (1970) e "La ragazza dalle mani di corallo" (1971).

Lo scarso esito commerciale delle pellicole e i problemi riscontrati in sede censorea, spinsero i due ad avvicinarsi al western, genere più abbordabile e popolare che dopo i fasti dei sessanta stava comunque esalando i suoi ultimi respiri.

Il tema di questo film è quello piuttosto abusato della vendetta. Una banda di razziatori di cavalli facente capo a Ramson, rapina un ranch violentando e uccidendo le donne presenti. Nick Burton, padre di Jane, unica ragazza sopravvissuta alla strage, decide di vendicarsi. A tal fine si allea, quasi per caso, con un curioso bounty killer soprannominato Piffero per il vezzo di zufolare nei momenti di solitudine e in quelli che precedono le sparatorie. Abile pistolero e lanciatore di coltelli, aveva partecipato, al servizio di Ramson, alla spedizione al ranch pur non avendo preso parte attiva al massacro, limitandosi ad assistere in disparte e, ovviamente, a zufolare. Ucciso Ramson e sterminati tutti i membri della banda, Piffero sarà riconosciuto da Jane che darà luogo a una sua personale vendetta. Senza null'altro aggiungere su una trama dai connotati risaputi, "Lo ammazzò come un cane" costituisce il punto di rottura della collaborazione tra Pannacciò e Petrini, che rifiutò di firmare il film. In un'intervista resa alla rivista Nocturno alcuni anni prima della sua dipartita avvenuta nel 2010, il Petrini, nell'attribuire a se stesso la direzione della pellicola, ebbe ad accusare il Pannacciò di aver manomesso il girato inserendo, a sua insaputa e contro la sua volontà, alcune scene erotiche. Pur riconoscendo l’importanza di tali affermazioni a livello sia esegetico che filologico, al fine di risolvere alcuni misteri del nostro cinema minore, la bilancia della paternità dell’opera pende comunque ad avviso di chi scrive a favore del Pannacciò, rappresentando pertanto l'esordio registico di quest'ultimo. A differenza di un Petrini, formalmente curato e lineare, "Lo ammazzò come un cane" si informa piuttosto a quel certo modo di fare cinema squinternato e cialtrone che caratterizzerà, in futuro, l’intera filmografia pannacciana, in linea di massima quasi sempre sciagurata.

A parte qualche bella panoramica, probabilmente realizzata dal Petrini, il film è dominato da un incedere lento e frammentato in grado di trasfigurare anche la trama più semplice in un pastiche confuso e scarsamente comprensibile. L’insipienza del cineasta umbro si manifesta in tutta la sua preclara evidenza in una disarmante noncuranza dell’ABC della regia e, più in generale, di come si realizza un film: inquadrature visibilmente sbagliate, ora troppo distanti, ora troppo ravvicinate, nelle quali si annacqua, in particolare, ogni velleità di ricercare un'esasperata violenza nelle sparatorie e negli sgozzamenti; riprese con macchina a mano traballanti e dilettantesche; dialoghi e situazioni improvvisate là per là sul set; copione e sceneggiatura a dir poco latitanti; montaggio strampalato con raccordi temporali totalmente a casaccio.

Complice una desolante povertà di mezzi, il film non tenta nemmeno di camuffare la campagna ciociara e le cascate del Monte Gelato per darci una sia pur vaga idea di un’ambientazione da vecchio west (gente come Fidani o Spataro almeno ci provava), segno evidente di una sciatteria e di un'incompetenza senza pari.

Completano l'excursus alcune trovate da antologia del trash, come l’"apprezzamento” di Ramson, interpretato dallo spagnolo Antonio Molino Rojo, nei confronti dei suoi sottoposti, apostrofati come delle merde e la battuta, ormai divenuta celeberrima tra i vari recensori della pellicola, riservata al personaggio di Piffero: “…a cosa gli servirà il Piffero? Probabilmente lo userà per farsi il clistere!".

Spostando lo sguardo sul versante interpretativo, se l’attore holliwoodiano di terza fascia Michael Forest, nella veste del padre vendicatore, appare imbambolato e poco in parte, il personaggio chiave del film si riconosce senz’altro in Piffero. Ne riveste il ruolo Giuseppe Cardillo, in arte Steven Tedd, una bella faccia d’attore che avrebbe meritato miglior sorte, già sotto contratto per la scuderia pannacciana "Universalia" (lo si è visto, fra l'altro, in "La casa delle mele mature" e nel testè citato "La ragazza dalle mani di corallo") e già utilizzato, con una certa frequenza, nel western minore. Figura direttamente ispirata al personaggio di “Armonica”, rivestito da Charles Bronson nel leoniano “C’era una volta il West”, si rende latore di una curiosa morale né buona né cattiva ma soltanto tendente al proprio tornaconto, rivisitando così in maniera a suo modo originale uno degli archetipi del miglior western nostrano.

Susanna Levi, al secolo Assunta Sicurezza e all’epoca compagna del regista, ci regala invece un’interpretazione piuttosto anonima ma che si riscatta, quanto a intensità, nella delirante e violentissima scena finale.

Tediosa e poco incisiva la colonna sonora di Daniele Patucchi, che aveva dato miglior prova nella precedente produzione pannacciana "Così così più forte" con i suoi brani ricercati stile bossa-nova alla "Metti una sera a cena". Bruttino anche il brano lounge "A man is made of love".

Un’ultima notazione: pare che del film esista anche una versione per l’estero (ricercatissima dai collezionisti) contenente scene hard (come era d' uso in quegli anni) che riprendono e prorogano alcune sequenze rimaste solo accennate nell’edizione italiana, come una fellatio impartita a Piffero e la scena dello stupro iniziale.

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