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Il mistero di Oberwald

Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film

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La recensione su Il mistero di Oberwald

di spopola
6 stelle

Anche se è stato soprattutto un pretesto per fare esperimenti sul colore, la mano di Antonioni si riconosce bene. Parafrasando dunque le parole del regista su questa sua opera, si può concludere dicendo che non si è sfracellato nell’impatto con il corpo alieno ma: ne è uscito senza troppe ammaccature se si vuole proprio essere realistici.

“Si intitola ‘Il mistero di Oberwald’ ed è tratto da un dramma di Jean Cocteau, basato sua volta, alla lontana, sulla storia di Luigi di Baviera e su quella dell’Imperatrice Elisabetta d’Austria. Cocteau le ha mescolate insieme inventando di sana pianta una terza storia. Perché questa scelta? Non è una scelta, è un caso. Si può anche fare dell’ironia su questo e dire che il “mistero” sta nel perché io abbia fatto questo film. E’ la prima volta infatti che mi cimento con un dramma a fosche tinte e l’impatto è stato tutt’altro che morbido. Diciamo che ho fatto del mio meglio per attutire l’urto. Prima di tutto ho svincolato la vicenda da ogni legame storico spostandola nel tempo. I costumi lo testimoniano. Siamo nel 1903, in un regno non identificato. In secondo luogo ho apportato delle modifiche al dialogo. Con l’aiuto di Tonino Guerra l’ho scorciato e asciugato dall’enfasi di cui Cocteau l’aveva imbottito. Mi sono tenuto insomma di fronte a questa materia in una posizione di distaccato rispetto, cercando al tempo stesso di evitare che la mia natura di regista venisse annientata. Spero che qualche eco di questa natura qua e là si faccia sentire. Non voglio difendere Cocteau, che considero uno scrittore geniale, estroso, ma limitato e lontano dal gusto letterario moderno. Eppure una certa aria di attualità percorre tutto questo suo dramma. Ovvio che cercassi di puntualizzarla, soprattutto adottando una terminologia che vagamente evocasse le tristi cronache dei nostri giorni. Parole come anarchico, opposizione, potere, capo della polizia, compagno, gruppo, appartengono al nostro vocabolario quotidiano. E’ vero che la soluzione della vicenda è quanto di più romantico si potesse immaginare, ma questo fa parte della stilizzazione e formalizzazione del genere melodrammatico al quale Cocteau ha voluto rimanere fedele. Il mio distacco, dunque, era pienamente giustificato. Ma questa giustificazione si porta dietro – ira, mentre scrivo – una confessione. Che senso di leggerezza ho provato di fronte a quegli eventi privi della complessità del reale a cui ci siamo abituati. Che sollievo sfuggire alla difficoltà di un impegno morale ed estetico, all’ossessionante desiderio di esprimersi. E’ stato come ritrovare un’infanzia dimenticata. Ma c’è di più. Proprio questa posizione mi ha consentito di dedicare una maggiore attenzione ai problemi attinenti al mezzo tecnico.” Così scriveva Michelangelo Antonioni, ripercorrendo le tracce e le ragioni della sua pellicola (“Fare un film è per me vivere”, Marsilio editore, 1994) e sono note importanti dalle quali non si può prescindere per una analisi oggettiva del risultato. Lui fu stimolato ad acquisire la responsabilità della regia proprio da Monica Vitti (il progetto era di stampo televisivo e non credo proprio che si fosse pensato a lui in prima battuta se non ci fosse stata la mediazione dell’attrice). Sicuramente solo questa allettante possibilità che gli consentiva di portare avanti una sua “personale” sperimentazione sul colore altrimenti impossibile (il film, solo successivamente riversato in pellicola, venne girato “elettronicamente” e quindi con gli interventi “diretti” in corso d’opera per alterare e modificare a piacimento la cromaticità delle tinte, al fine di definire meglio, proprio attraverso quel gioco delle nuances e delle sfumature cangianti che si trasformano finalmente portato alle estreme conseguenze, l’intensità interiore dei personaggi, completando così - e rendendolo più esplicito - quel discorso sui “colori come stati d’animo” che aveva iniziato proprio con “Deserto Rosso” dove però il lavoro era stato molto più semplicizzato e complesso al tempo stesso per la necessità di dover intervenire “manualmente” e “parsimoniosamente” a causa dei costi, per alterare la natura) fu la molla che gli fece dire di sì. Non è né poteva essere dunque il “migliore Antonioni” ciò che ne usciva fuori (si potrebbe immaginare una modalità più distante dalla poetica del regista l’enfasi un po’ retorica dello scrittore, e soprattutto la struttura melodrammatica della storia, nonostante i coraggiosi interventi di riscrittura che l’hanno asciugata di molti degli eccessi e delle prolissità un po’ barocche insite non solo nel dramma, ma anche nella seguente trasposizione in pellicola fatta dallo stesso Cocteau nel 1948 che è e rimane – come potrà constatare chi vorrà affrontarne la visione resa possibile dall’edizione in Dvd curata da Rarofilm e da pochi giorni disponibile nei negozi - una “reinvenzione” poetica che trae spunto alla lontana dalla Storia, ma solo per raccontarne un’altra, vissuta (o meglio espressa) da eroi miticizzati dalla fantasiosa aulicità dell’autore in un delirio di romanticismo decadente estremizzato, che adesso può apparire persino temerariamente anacronistico, quasi ridicolo se non si riesce a trovare la mediazione del tempo a giustificarne persino la portata passionalmente “patetica” di una conclusione davvero da “tragedia operistica” oggi difficilmente digeribile). Se ci soffermiamo “criticamente” proprio sul racconto dei fatti narrati, (una esagerata, quasi aberrante storia di odio, amore e morte forse un po’ fotoromanzesca per come è “pompata ad arte”) ci si renderà ancor meglio a che cosa si allude parlando di “anacronismo” insostenibile del tempo che passa inesorabile a lasciare i propri solchi incolmabili. E allora, proprio dal raffronto delle due “letture” condotte sullo stesso testo di partenza, direi che con tutti i suoi limiti (e al di là del valore che riveste sotto il profilo tecnico della ricerca formale) “Il mistero di Oberwald” ne esce vincente, nel senso che – se non la storia, sulla quale era probabilmente impossibile intervenire in maniera più drastica e “razionale” – è il linguaggio meno arcaicamente datato e più universalmente accettabile a diminuirne l’osticità dell’impatto, poiché al giorno d’oggi certe esasperazioni “programmatiche” è persino difficile considerarle un “dramma”, tanto si sono evoluti i costumi e le idee. Il versante delle immagini è poi indubbiamente in linea con il percorso antonioniano, e non parlo esclusivamente dell’uso del colore (per apprezzare interamente il lavoro svolto in questa direzione, molto meglio comunque rapportarsi a ciò che è stato possibile vedere in televisione, poiché il trasferimento in pellicola ha abbastanza appiattito il lavoro e reso più meccanici e meno incisivi i “passaggi”) ma di certi raccordi, della struttura dell’inquadratura , del montaggio interno, della costruzione, insomma. A mio avviso comunque la modernizzazione è avvertibile soprattutto in ciò che è stato fatto in relazione alla recitazione degli attori, prosciugati di ogni eccesso infiammato mattatorialmente esasperato immaginato da Cocteau. Antonioni ha operato infatti in totale sottrazione, con un lavoro di cesello davvero coraggioso anche se si considera che spesso lui è proprio s questo versante che “sorvola” un pò troppo (si accontenta, direi), lo considera persino secondario a volte. Non sono al riguardo per nulla d’accordo con ciò che scrive il Mereghetti, quando afferma che il film “è recitato male”. Io direi che è recitato in maniera diversa (e difforme) – quasi in contrasto – con ciò che ci si sarebbe potuti aspettare, poiché questo era davvero l’unico modo per tentare di modernizzarne l’approccio e lasciare qualche traccia (anche se non completamente compiuta – ma forse visto il soggetto e il mezzo a cui era destinata la realizzazione sarebbe stato davvero impossibile pretendere di più) della sua “natura di regista”. In questo contesto, se si eccettua un Franco Branciaroli a volte troppo bamboleggiante, a me sembra ammirevole in primo luogo la resa di Monica Vitti, insolitamente “contenuta” e sotto le righe (privata dei suoi “vezzi”) che interiorizza ciò che (il testo di partenza) vorrebbe gridato, ma anche l’intelligente caratterizzazione di Elisabetta Pozzi, viscida e penetrante quanto e più del necessario, ma mai pletoricamente esibita, e soprattutto quella di Paolo Bonacelli che fa da par suo un “cattivo” di maniera (ma non troppo). Poco più che un pretesto per un “esperimento tecnico” allora (lo si evince persino dalle dichiarazioni del regista che le cose stanno così...) ma non tanto limitativa e “indifferente” da farlo smarrire per strada: che “dietro” c’è comunque Antonioni, volenti o nolenti lo si nota, eccome!! Parafrasando le sue parole, si può concludere allora dicendo che la forza dell’urto “paventato”, si avverte, ma fortunatamente non si è sfracellato nell’impatto: ne è uscito anzi abbastanza indenne se si vuole proprio essere realistici.

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