La Reiner-Burchill Residence, meglio nota come Silvertop, fu una delle prime abitazioni firmate da John Lautner nella California meridionale (per chi volesse visitarla, si trova al 2138 di Micheltorena Street, Los Angeles); gli fu commissionata nel 1956 da un ingegnere, Kenneth Reiner, che chiedeva “una casa silenziosa all’orecchio e alla vista”. Probabilmente le pretese di Reiner erano eccessive rispetto alla sua effettiva disponibilità economica, tanto che la proprietà gli fu pignorata nel 1970 senza che avesse mai potuto abitarvi, per essere poi acquistata dai coniugi Burchill.
Anello di congiunzione fra le visioni di Frank Lloyd Wright e di Frank Gehry, Silvertop è un capolavoro, la sintesi dell’idea progettuale di Lautner secondo cui “far sparire lo spazio sembra essere la più durevole, sopportabile e vivificante qualità in architettura”. Sembra un paradosso ma per “far sparire lo spazio” il progettista utilizza per la prima volta il cemento precompresso quale materiale scultoreo principale di un suo lavoro, conferendovi una paradossale leggerezza capace di instaurare un dialogo con la natura circostante.
In cemento è l’ampio viale a sbalzo dello spessore di soli dieci centimetri e privo di colonne di sostegno – per cui un ispettore edile chiese una verifica per appurare che potesse reggere il peso di un auto; il test dimostrò che la struttura era in grado di sostenere il peso di tre camion dei pompieri – così come la terrazza con le sue coperture curve; in cemento armato precompresso è la singola vela di 25 metri che definisce il soggiorno.
Qui, come spiega Kevin Santus in un articolo rintracciabile sul sito di Domus, “l’innovazione tecnica disegna una superficie che si relaziona con la topografia scoscesa, aprendosi sul paesaggio anche grazie a una piscina a sfioro che definisce un vuoto davanti al soggiorno. In generale, la casa presenta pareti curvilinee che avvolgono lo spazio, creando un continuo scambio tra interno ed esterno. L’eco wrightiana è visibile nella ampie coperture a sbalzo, che però in Lautner diventano lame leggere che integrano la natura stessa. [...] In Lautner il cemento si fa forma poetica dello spazio”.
Silvertop è la residenza della famiglia di Clay Easton, il protagonista ‘buono’ di Al di là di tutti i limiti, sciocco titolo italiano per la trasposizione cinematografica firmata da Marek Kanievksa di Less Than Zero, debutto letterario di Bret Easton Ellis. Per quanto sembri incredibile, nel film la bellezza della costruzione non si apprezza mai per intero, non esiste un totale dell’esterno né un’inquadratura che la renda riconoscibile e ne esalti la straordinarietà.
La villa, a cui Clay fa ritorno dopo alcuni mesi trascorsi al college, è annunciata dal viale di palme che questi percorre in taxi. Quando vi arriva, si notano appena le ampie coperture a sbalzo e un pilone di calcestruzzo.
Il ragazzo entra nell’appartamento e la macchina da presa lo pedina senza stacchi: si scorgono pareti rivestite in legno e in seguito il soggiorno, con le finestre a tutta altezza aperte sul circondario e una parete fucsia dall’altra parte della stanza.
Mentre Clay prosegue il suo giro, si vedono serre di vetro punteggiare gli ambienti; quindi il giovane raggiunge la sua camera e la visita si interrompe. A Silvertop si torna dopo oltre metà film per un brindisi natalizio nel soggiorno già descritto.
La sequenza successiva consente finalmente di apprezzare almeno la spettacolare piscina a sfioro, alla cui estremità è eretta una parete illuminata da una luce rossastra su cui riposa il bad guy del film, il Julian Wells di Robert Downey Jr. È una bella scena. Blair, la donna che ha amato Clay e Julian, osserva dall’interno il primo che cerca di salvare la vita al secondo, tossicomane alcolizzato e pericolosamente indebitato.
Gli sguardi che i tre si scambiano attraverso la vetrata catturano il senso di disperazione alla base del romanzo e quello del lavoro della scenografa Barbara Ling: “A Los Angeles, ho sempre trovato interessante l’idea di queste barriere di vetro che riflettono le persone e non consentono a nessuno di vedersi mai veramente. La piscina a sfioro che ho individuato per il film, da cui i protagonisti possono vedere la città sullo sfondo, l’ho scelta perché per me esprime l’immagine di un guscio vuoto”.
Così, dopo aver svettato per anni da protagoniste in decine di film quali indimenticabili rifugi per ogni genere di villain, le dimore moderniste, nella L.A. ellisiana, non meritano neanche la riconoscibilità; ognuna di esse è indistinguibile dall’altra, purché sia enorme, lussuosa, arredata con elementi d’arte moderna a loro volta indistinguibili e intercambiabili.
L’architettura in cui vive Clay è preziosa, ma né lui né i suoi familiari sembrano dare valore a questa irripetibilità. Lo stesso regista non le attribuisce un ruolo di privilegio rispetto alle altre, a quella di Blair o a quella dello spacciatore Rip, che peraltro può vantare terrazza con vista da far tremare le gambe. La ricchezza degli orrendi genitori di Ellis è sempre sperpero, incapacità di distinguere la vera bellezza.
È pura catalogazione, schizofrenico gusto per l’accumulo. Lo scrittore ce lo dirà con chiarezza inappellabile attraverso gli infiniti elenchi di merce riportati in American Psycho, dove una palestra progettata da Philippe Starck poteva valere quella di un ignoto, purché entrambe trasmettessero l’illusione di un benessere esorbitante. Ecco perché Silvertop, in Less Than Zero, è svilita e frammentata, perché nessuno ha gli occhi per riconoscerla; è solo un’altra cattedrale in quel deserto dell’anima di cui, da sempre, parla l’autore.
Il film
Al di là di tutti i limiti
Drammatico - USA 1987 - durata 98’
Titolo originale: Less than Zero
Regia: Marek Kanievska
Con Andrew McCarthy, Jami Gertz, Robert Downey jr., James Spader
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta