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Venezia 2011, Giorno 5 - Domenica 04/09: Alice, L'arrivo di Wang, Don't Expect Too Much, La terre outragée, We Can't Go Home Again, Twilight Portrait, Terraferma, I'm Carolyn Parker, Wilde Salome, The Invader, Pivano Blues, Habibi, Shame e Alois Nebel
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Dopo aver visto davvero Cose dell’Altro Mondo con Patierno, assaggiato il delizioso Pollo alle prugne della Satrapi (che cita e ricita Amelie) e aver resistito al disturbante shock necrofilo di Alps di Lanthimos, Venezia oggi in Concorso presenta il primo titolo italiano: Terraferma di Emanuele Crialese ma procediamo con ordine, vedendo cosa offre prima l’intera giornata.

 

 

Si apre alle 11 in Sala Grande con Controcampo Italiano. Come al solito, spazio prima a un cortometraggio: oggi è la volta di Alice di Roberto De Paolis, un viaggio nella maternità mancata dolorosamente rappresentata da Giulia Bevilacqua:

 

Alice (2011)

di Roberto De Paolis con Giulia Bevilacqua, Edoardo Pesce, Sveva Alviti

 

«Il tema è noto: come reagiscono le persone alla perdita di qualcosa di fondamentale, qualcosa che con la sua assenza distrugge tutto quello che si stava costruendo? Come si fronteggia il dolore della privazione, il senso della mancanza? Cercando di evitare il mondo delle spiegazioni razionali, si sono voluti raccontare alcuni momenti di vita che rappresentassero la sintesi della costruzione e della distruzione di un legame: la realizzazione e il disfacimento del disegno di vita di coppia diventano, in Alice i limiti estremi all’interno dei quali si giocano i destini dei personaggi. Limiti che quasi si toccano, privi come sono di soluzione di continuità».

 

 

Subito dopo spazio all’alieno cinese portato dai fratelli Manetti in scena con L’arrivo di Wang, satira fantascientifica low budget sulle paure della diversità e sulle nuove potenze economiche globali:

 

L'arrivo di Wang (2011)

di Manetti Bros. con Ennio Fantastichini, Francesca Cuttica, Juliet Esey Joseph, Massimo Triggiani, Antonello Morroni, Jader Giraldi, Li Yong, Rodolfo Bandini, Furio Ferrari, Angelo Nicotra

 

«Il film racconta l’incontro tra tre persone. È una storia psicologica di tensione in cui tre personalità enormemente diverse si confrontano manifestando a poco a poco le proprie caratteristiche. Il concetto che ci interessava raccontare è se chi ci è accanto tutti i giorni può essere più diverso di chi viene da un altro pianeta. Attraverso gli occhi puri della giovane interprete non vogliamo dare risposte ma, di fronte a una realtà sempre più incerta, porre delle difficili domande. Il film, pur rimanendo un film di genere, riflette su alcuni temi umani ed etici: quanto bisogna fidarsi del prossimo? Che cos’è un pregiudizio? Quale limite si può superare per difendersi da una possibile minaccia, o quanto si può rischiare di sbagliare per perseguire i propri ideali?».

 

 

Alle 11:15 in Sala Perla per gli eventi del Fuori Concorso spazio al ricordo del cinema di Nicholas Ray con la proiezione del documentario Don’t Expect Too Much, in cui la moglie Susan Ray racconta il cinema del marito attraverso la ricostruzione dell’ultimo film sperimentale rimasto incompiuto (We can’t go home again) :

«Questo progetto è partito da alcuni interrogativi, un sacco di interrogativi, e onestamente anche qualche dubbio. Durante la lavorazione di We Can’t Go Home Again, è stato lo stesso Nick a rispondere alle mie domande; così i dubbi sono diventati rivelatori, non solo delle intenzioni di Nick, del suo modo di lavorare e della sua visione presciente, ma delle forze motrici che oggi guidano le nostre vite e che Nick aveva visto attecchire già quarant’anni fa. Ero convinta di conoscere bene il mio uomo, ma lavorando a questo film ho capito che non lo conoscevo fino in fondo».

 

 

Alle 14 in Sala Darsena per la Settimana della Critica lo sguardo del pubblico ritorna indietro nel tempo fino al 1986 con l’esplosione nucleare di Chernobyl in La terre outragée di Michale Boganim:

«L’impianto documentaristico è soltanto una falsariga adottata per raccontare la prima grande tragedia nucleare avvenuta nella centrale di Chernobyl venticinque anni fa, che causò la morte di oltre quattromila persone. Fra silenzi di regime e oblii collettivi, le ferite di quella catastrofe riemergono in tutta la loro drammaticità umana e ambientale, esistenziale e politica. Un affresco tragicamente attuale - ancor di più dopo lo scoppio della centrale giapponese di Fukushima - quello che la giovane regista franco-israeliana ha realizzato nella sua prima opera di fiction ricorrendo a soluzioni narrative che le consentono di ripercorrere quanto accade prima e dopo la contaminazione. La cittadina di Pripyat con i suoi paesaggi, da un lato, e Anya - interpretata dall’ex modella ucraina Olga Kurylenko, già Bondgirl in Quantum of Solace (2008) – dall’altro, sono i perni intorno ai quali ruota l’intera pellicola. Il salto temporale è di dieci anni: dalla vita tranquilla condotta fino al disastro dell’aprile del 1986 si passa al 1996. Le piogge acide sono terminate, ma lo scenario resta inquietante come la condizione di Anya che il giorno stesso del matrimonio ha perso il marito morto nel tentativo di spegnere l’incendio. Potrebbe cambiare vita, abbandonare la terra d’origine, seguire a Parigi l’uomo francese che la ama, ma la malattia che la mina le toglie ogni prospettiva futura. È nel quotidiano che la giovane e affascinante donna deve trovare la forza per andare avanti, giorno dopo giorno, nonostante i segni angoscianti che il corpo evidenzia. Nel silenzio innaturale di Pripyat divenuta una città fantasma, una sorta di Pompei del XX secolo con le abitazioni abbandonate e gli arredi in degrado, si muove furtivo anche il giovane Valery alla ricerca di qualcosa che possa aiutarlo a recuperare il proprio mondo distrutto, quello dell’infanzia perduta con la sparizione del padre. Il continuo passaggio tra questi due mondi restituisce un affresco tragico e disperante, un macigno sulla coscienza di ognuno».

 

 

Alle 14:30 in Sala Grande prosegue per il Fuori Concorso l’omaggio a Nicholas Ray con la proiezione proprio dello sperimentale We can’t go home again, film realizzato insieme agli studenti di un corso di cinema, visto in precedenza solo quasi 40 anni fa al Festival di Cannes, in una versione rimontata e rimasterizzata secondo le indicazioni che il regista ha lasciato alla moglie Susan - il film sarà presto in onda su Raitre per Fuori Orario:

 

We Can't Go Home Again (1976)

di Nicholas Ray con Nicholas Ray, Tom Farrell, Jill Gannon, Jane Heymann, Richie Bock, Danny Fisher, Leslie Levinson, Stanley Liu, Luke Oberle, Ned Weisman

 


«Non posso insegnarvi come si fa un film, fare un film è un?esperienza,” così nel 1971 Nicholas Ray, leggenda di Hollywood in esilio volontario, iniziò le sue lezioni all'Hampur College di Binghamton, nello stato di New York.

Il film che diverrà We Can’t Go Home Again è il risultato di quelle lezioni, è il suo modo di trasmettere la sua esperienza di cineasta, il suo modo di insegnare cinema facendo cinema.
Sul set gli studenti si scambiavano i ruoli ogni due settimane, in questo modo tutti avevano la possibilità di confrontarsi con le diverse professionalità richieste per un film e capire come queste siano strettamente connesse tra di loro. Con l'andare avanti delle riprese la troupe divenne molto unita, lavorando insieme la divisione tra vita e set scomparve e la vita degli studenti e il loro rapporto con Ray divenne il contenuto del film.

 

We Can’t Go Home Again è un film sperimentale che può essere considerato, seppur diverso nelle intenzioni, un primo prototipo di reality televisivo. Per Ray questo era, tra le altre cose, l?approccio a quello che lui definiva “cinema giornalistico”, ovvero documentare “la storia, i progressi, le attitudini, i modi, la morale del vivere quotidiano”.  Il film è anche un?esplorazione delle dinamiche tra due generazioni: quella del regista, definita la generazione dei traditori, e quella dei giovani, rappresentata dagli studenti che Ray incita a distogliersi dall'impegno sociale per portare avanti i propri progetti.

 

Alla domanda quale fosse l'argomento del film il regista rispondeva: ”È su quello che stiamo cercando. E noi stiamo cercando noi stessi, la nostra identità”. Durante le riprese Ray usò 90.000 piedi di pellicola in tutti i formati, 8mm, 16mm e 35mm, con le immagini più piccole integrate attraverso la retroproiezione simultanea in un fotogramma da 35 mm. In 90 minuti lo spettatore può vedere cosí 3 o 4 ore di film. Attraverso questo uso delle immagini multiple il film vuole riflettere la realtà: noi non viviamo o pensiamo in maniera lineare, le nostre vite si intrecciano contemporaneamente con le vite altrui influenzandosi a vicenda.

 

Attraverso l'uso del video sintetizzatore di Nam June Paik, Ray altera le immagini e i loro colori avvicinandosi all'astrazione espressionistica e collocando il film al confine tra cinema e video arte. Dalla morte di Ray, più di 30 anni fa, la tecnologia digitale ha reso queste tecniche molto più accessibili sia dal punto di vista tecnico che da quello economico, ma fino ad oggi nessuno è riuscito a raggiungere la ricchezza e la forza emotiva che Ray ha creato con i mezzi rudimentali usati in We Can’t Go Home Again.

 

Nonostante il film sia stato proiettato in una versione non finita fuori concorso a Cannes nel 1973, nel 1974, mentre l'alcool stava distruggendo il regista, la produzione si trovò a corto di mezzi. Nel 1976, dopo aver risolto i suoi problemi, Ray cercò varie volte di finire il film, ma nel 1979 morì di cancro prima di riuscire a terminare il suo lavoro».

 

 

 

 

Ore 16:30, la Sala Darsena è pronta ad accogliere per le Giornate degli Autori la proiezione dello sconvolgente film russo Twilight Portrait dell’esordiente Angelina Nikonova, un duro pugno allo stomaco per un’esordiente di cui sentiremo parlare molto in futuro, una storia con al centro un’assistente sociale che si occupa di stupri che, dopo esser stata violentata da un militare russo, medita la sua vendetta: lo shock visivo è assicurato in un film di denuncia sociale e politica.

 

Twilight Portrait (2011)

di Angelina Nikonova con Olga Dihovichnaya, Sergey Borisov, Sergei Golyudov, Galina Koren, Roman Merinov, Vsevolod Voronov

 

«Sono rimasta colpita dall’autenticità della storia. Ho coinvolto molti attori non professionisti. Ho scelto di utilizzare due macchine fotografiche che riprendevano contemporaneamente da angolazioni diverse. Ho sfidato il direttore della fotografia e i cameramen a non usare luci, se non quelle naturali. Ho sfidato Olga a non utilizzare alcun trucco sul set». (Angelina Nikonova)



Twilight Portrait è una funzione delle macchine fotografiche digitali. Come quella che ha un ruolo narrativo solo apparentemente secondario in questa storia, come le due che erano sul set a riprendere un film che Angelina Nikonova ha affrontato come una sfida tripla, un salto mortale. Luci naturali, nessun trucco per la protagonista e coproduttrice – Olga Dihovichnaya, bravissima –, una struttura narrativa che prende a pugni ogni moralismo e anche qualche regola non scritta. Una famiglia e un lavoro possono comunque schiacciarti nella solitudine, uno stupro può obbligarti a frantumare le ipocrite sovrastrutture della tua vita. Un'opera che vi scuoterà e farà incazzare, in cui ogni scelta estetica è anche etica. E viceversa. (Boris Sollazzo).

 

 

*****SPECIALE TERRAFERMA*****

 

Ed ecco arrivare alle 17 e solo in Sala Grande (niente PalaBiennale, curiosa scelta) il primo film italiano in ConcorsoTerraferma di Emanuele Crialese. Due anni di lavoro e riprese nella piccola isola di Linosa a stretto contatto con il mare e una cultura che fatica tutti i giorni a rinnovarsi, un meltin’ pot d’anime con al centro l’amore di due madri, pronte a tutto per i loro figli.

 

Emanuele Crialese:

«Tornare sull’isola di Respiro nell’estate del 2009…

Ho trovato un luogo molto diverso da come lo ricordavo durante le riprese… il mio scoglio sperduto in mezzo al mare è adesso terra di frontiera. Relitti di barche mezze affondate, in attesa di essere cancellate dal mare, motovedette con cannoni e mitragliatrici, confusione e disperazione.  Rimango sull’isola ad aspettare…

 

Dopo 21 giorni alla deriva, approda a Lampedusa un barcone carico di più di settanta persone. Sepolte dai cadaveri dei compagni di viaggio, soltanto cinque sono sopravvissute. Tra questi c’è un’unica donna: Timnit T. 

Vado a cercarla. La trovo sorridente, dice di essere nata una seconda volta.

 

Sono anni ormai che osservo le immagini di questi barconi che approdano sulle nostre coste, che ascolto i racconti dei sopravvissuti, di coloro che sono riusciti a “rimanere a galla”.

La stampa parla di “esodo”, “tsunami umano”, “clandestinità”, “immigrazione”.

Guardando Timnit mi sembrano parole vuote. Lei non porta quei nomi. Non corrisponde a quelle parole. Timnit ha lo sguardo di chi ha rischiato la vita per cambiare la sua storia, ha attraversato il mare, un’altra odissea, un altro viaggio verso l’evoluzione. Finché ci sarà vita sulla terra gli uomini partiranno per migliorare loro stessi.

Il movimento è azione e l’azione è conoscenza.

Come si può negare ad un uomo il diritto di andare, di cercare, di conoscere e quindi di evolversi?

 

Come raccontare una storia ed uscire da parole come “clandestino” o “ emigrato” o “extracomunitario”? 

 

Una mattina mi sveglio pensando ad una frase: “c’era una volta”…

 

Comincio a scrivere come se mi rivolgessi ad un bambino, come se potessi raggiungere il bambino che è dentro di me. Ho cercato un linguaggio libero da pregiudizi e da paure.

Provo un senso di ribellione all’idea di essere trattato come un bambino disubbidiente a cui si dice ancora “ attento all’uomo nero che ti mangia tutto intero”… questa è la cantilena che ascoltiamo da anni, questo lo strumento usato per renderci più docili, più fragili, più bisognosi di protezione.

 

Ritorno da Timnit e le domando di imbarcarsi con me, su una barca immaginaria, quella della rappresentazione. Le propongo di reinterpretare alcuni momenti della sua storia vera con l’intesa e l’intento di poter cambiare, di poterla riscrivere, ricreare. Le propongo l’incontro con un'altra donna, un’isolana, con la stessa voglia di andare, di ricostruire altrove, per migliorare se stessa per aiutare suo figlio a crescere senza paura».

Terraferma (2011): Trailer Ufficiale

 

«Ho scelto di raccontare questa  storia attraverso lo sguardo  di Filippo, un ragazzo di 20 anni che vive su un’isola dalla quale non è mai partito.  

Filippo parla la lingua della sua gente, gente di mare. Gente di poche parole. Ha imparato da suo nonno a rispettare la legge del mare, a vivere di lavoro e di pesca, per rimanere libero, per vivere di quello che il mare regala ogni giorno, lontano dai soldi e dal consumo del superfluo.  

Filippo è orfano di padre, lo è da due anni; quello che gli è rimasto di lui, oltre il ricordo di un padre idealizzato a mito, è una vecchia barca di legno con  le sue reti, il mestiere, lo stesso mestiere che lo ha ucciso, trascinandolo tra le onde del mare, e ingoiato nei suoi abissi.  

Filippo ha abbandonato la scuola dei libri per rimanere sul  banco del ponte di prua ad issare le reti, seguendo la rotta di suo padre.  

Filippo ha una giovane madre, Giulietta. Da quando il padre è sparito (il suo corpo non è mai stato trovato) Filippo non si sente più solo suo figlio, ma capofamiglia, capitano della loro piccola barca di terra, uomo di casa.  È quello che vorrebbe se solo lei glielo permettesse, se solo la smettesse di trattarlo ancora come un bambino.  

Giulietta vuole offrire a suo figlio altri spazi,  altri mondi e a se stessa la speranza di un nuovo amore, di una nuova vita. Giulietta vuole andare, cercare e trovare un altrove su cui poter fondare la sua nuova esistenza. Giulietta vuole fuggire dal dolore, dall’ignoranza, dal ricordo di un grande amore, ma soprattutto vuole salvare suo figlio dalla vita e dalla morte che è toccata al suo uomo.  

Con la cifra che lo stato offre per la rottamazione della barca Giulietta può ricominciare altrove. Ma Filippo non vuole distruggere la barca di suo padre. Propone alla madre di utilizzarla per portare i turisti in gita durante l’estate. Giulietta ha comunque deciso che alla fine dell’estate la barca verrà rottamata, l’eredità del suo uomo e del padre di Filippo servirà a dar loro la speranza di una vita migliore sulla Terraferma.  

Arriva l’estate; due mesi di euforia, due mesi per guardare volti nuovi, per ascoltare storie di altre genti venute da un “altrove” misterioso, ma sono  anche due mesi di guadagni sicuri, di riserve vitali per l’inverno degli isolani.  

Giulietta ha riverniciato la sua casa nella speranza di poterla affittare ai turisti. Lei e Filippo si adatteranno a dormire nel garage. Una corrente umana travolge  l’isola con colori e allegria. I paesaggi desolati si popolano di famiglie in vacanza. Filippo riesce a pescare tre giovani turisti che affittano la loro casa. Tutto sembra andare come previsto.  

Finché durante una battuta di pesca Filippo e suo nonno decidono di dare soccorso ad un gruppo di africani tra cui c’è una donna incinta e suo figlio. La donna sta per partorire, viene portata nel garage di Giulietta dove dà alla luce una bambina.  

Lo stesso giorno un nuovo comandante della guardia di Finanza sequestra il peschereccio di Filippo con l’accusa di non aver provveduto a denunciare il trasporto e lo sbarco sull’isola degli africani. Della donna e di suo  figlio, nascosti in garage, nessuno sembra sapere nulla.  

 

Giulietta, Ernesto e Filippo si sono resi complici inconsapevoli di un nuovo reato: 

“favoreggiamento all’immigrazione clandestina”.  

Giulietta vorrebbe denunciare la presenza della donna nel suo garage nella speranza di convincere il nuovo comandante a recuperare la barca.  

Ernesto è stordito, i valori del suo mondo  sono crollati, anzi sono stati ribaltati completamente; quello che un tempo era considerato nobile e onorevole oggi viene punito come un crimine. Filippo è confuso. Chi sono  questi uomini alla deriva? Perché bisogna temerli?  

La donna africana nascosta nel garage porta il nome di Sara. E’ partita dal suo villaggio con suo figlio più di due anni  fa. Ha attraversato il deserto, il mare, per ricongiungersi a suo marito che vive e lavora a Torino. Sara chiede aiuto, chiede di poter continuare il suo viaggio.  

Giulietta e Sara appartengono a due mondi  diversi ma hanno in comune lo stesso  desiderio di fuga, condividono entrambe la speranza di un futuro migliore per i loro figli.  

Per aiutare Sara, Giulietta rischia di perdere tutto».  

 

 

 

Donatella Finocchiaro (Giulietta):

«Quando Emanuele Crialese mi ha chiamata per parlarmi del mio ruolo, mi ha detto: sei madre, vedova e basta. Solo queste due cose, non mi ha fatto neanche leggere il copione. Ma non ne avevo bisogno. Fare un film con Crialese per me è il sogno che finalmente si realizza, lo aspettavo ed è arrivato col cavallo bianco come un principe azzurro.  

A questo si è aggiunta poi l’unicità della storia  e di Linosa, una terra estrema dove la natura è prorompente e meravigliosa, perfetta ambientazione di  questa  storia che  ha  un  rapporto  continuo e privilegiato con il mare dalla prima all’ultima scena.  

Giulietta è la mamma di Filippo e vive sull’isola. Con Emanuele abbiamo immaginato che non fosse proprio un’indigena, ma si fosse trasferita per amore di suo marito, morto poi in un incidente in mare. È una donna che si vuole liberare del lutto, stanca di portare addosso questa tristezza e che dentro probabilmente ha sempre avuto voglia di un’indipendenza e una libertà che l’isola non le ha mai concesso. Sogna di scappare di portare suo figlio nelle grandi città, sogna di fare altro. E per suo figlio vuole un futuro diverso, circondato da persone colte e moderne, che possano insegnargli qualcosa.  

Il conflitto tra l’antico e il moderno Giulietta vorrebbe risolverlo andandosene con il figlio, per non lasciarlo né in balia del nonno i cui valori le sembrano spesso una zavorra, né in balia del cognato la cui massima aspirazione è fare l’animatore.  

Emanuele ha la straordinaria capacità di farti entrare nella giusta atmosfera, di farti arrivare il suo mondo, quello che lui vuole dal film, semplicemente sussurrandoti una parola, e tu diventi il suo strumento.  

Il fatto che lui utilizzi dei non attori per me è stata una bellissima scoperta ed è una cosa di cui mi sono resa conto soprattutto nelle scene con Sara. Con lei mi sono trovata a provare delle emozioni autentiche: un non attore non conosce trucchi e le emozioni sono inevitabilmente più vere.  

La scena più toccante per me è stata quando Emanuele ha sussurrato qualcosa all’orecchio di Sara e, ad un certo punto, l’ho vista prendere la sua bambina e dire qualcosa nella sua lingua, qualcosa che io non ho capito; poi si è commossa fino alle lacrime e allora ho capito che stava salutando la sua bambina ed è stata una magia.  

Questo è successo tante volte anche con Filippo Pucillo: lui è un uragano, un vulcano e, anche se ormai dopo 4 film, è un attore a tutti gli effetti continua a mantenere una parte istintuale, animalesca, molto forte. La nostra è stata una sintonia fatta di sguardi, di sorrisi, di giochi, e tutto ciò ci ha aiutato a diventare ancora di più madre e figlio».

 

 

Beppe Fiorello (Nino):


 

«Questo film mi ha permesso di tornare alle mie origini e mi ha dato la possibilità di rivivere in qualche modo la mia infanzia. Io sono cresciuto  in provincia, ad Augusta, un piccolo paese di mare, una Linosa della costa orientale e qui rivivo molte cose: i profumi, l’odore del mare, la pesca, le barche, la vita, i turisti che arrivano, l’isolamento degli inverni, l’afflusso del turismo in estate che porta novità, nuove mode, nuove prospettive di vita. 

Il mio personaggio, Nino, mi ricorda per molti aspetti la mia adolescenza. È un giovane isolano che, rendendosi conto che di sola pesca si vive faticosamente, propone al padre e a tutta la sua famiglia, di cambiare un po’ il loro modo di vivere, di guardare al di là del mare e di assecondare il cambiamento dei tempi. Per farlo suggerisce di portare i turisti in gita in barca, mirando a guadagni più facili con minor sforzo, e di adottare uno stile di vita nuovo e moderno. Queste sue idee contrastano apertamente con quelle del padre, che fa invece della tradizione della pesca una vera e propria lezione di vita. Questo contrasto padre-figlio si ripercuote poi nella vita di mio nipote: un ragazzo combattuto tra il fascino della modernità dello zio e lo spessore epico del nonno. Anche la madre di Filippo si trova a metà  strada tra la voglia di modernità, che significa lavorare con i turisti, e l’attaccamento alla tradizione, che significa non demolire la barca di famiglia tramandata di generazione in generazione. Nino, alla fine, è un personaggio accattivante, portatore di novità e simpatia, che si diverte e fa divertire».

 

 

Mimmo Cuticchio (Ernesto):

«Ernesto è un vecchio pescatore capobarca, amante delle tradizioni dell’antico mestiere. Io stesso provengo da una tradizione antica, quella del teatro delle marionette siciliane, (Opere dei Pupi) e già mio padre e mio nonno avevano fatto questo lavoro, per cui conosco bene il tema della lotta per preservare la tradizione e le tecniche antiche.  

Ernesto è puro, un uomo semplice che porta con sé i valori che gli sono stati tramandati dalla sua famiglia e dall’ambiente in cui è vissuto, l’isola,  e non riesce a capire la necessità dei figli di cambiare questo mestiere o addirittura di utilizzare il peschereccio per il trasporto dei turisti. Non c’è una cosa giusta o ingiusta, tra il giusto e l’ingiusto c’è il tempo che modifica le cose. Quindi Ernesto non lotta né difende, vuole semplicemente vivere la sua vita da anziano e si trova spiazzato di fronte alla corsa all’effimero degli ultimi tempi: perché invece di continuare ad imparare, ad avvolgere le cime, a cucire reti e a pulire barche si pensa a comprare motorini, a fare karaoke, a mettere dischi, a fare tuffi in acqua? Per lui è un altro mondo.  

Ho cominciato a capire che è proprio un altro mestiere quello dell’attore cinematografico. Anche qui mi ha aiutato molto la tradizione perché io sono stato abituato a stare ore e ore, giornate intere, fermo ad aspettare le indicazioni di mio padre che era il capo comico. Ma mi accorgo che effettivamente questo è un altro mestiere. Da quando ho messo piede sull’isola, ho cercato di capire chi era effettivamente Ernesto e me lo sono andato a cercare tra i pescatori. Per un mese e mezzo ho parlato con tutti gli uomini che incontravo. Poi ho conosciuto un pescatore e per me è diventato Ernesto. Ogni volta che attraccava con la barca lo osservavo da lontano e spiavo i suoi gesti: il modo di salire e scendere o di avvolgere le cime, stendere le reti, parlare col figlio, ecc. e cercavo di ‘rubare’, come si dice, il vissuto vero e incamerarlo nella mia mente e nel mio cuore. Poi l’ho portato in scena, aiutato anche da Emanuele, che è un regista esperto e sensibile e riesce a darmi quelle piccole indicazioni, quei piccoli suggerimenti, che fanno accendere la luce».

 

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Alle 17:15 in Sala Perla e per Orizzonti arriva il regista premio Oscar Jonathan Demme con il documentario I’m Carolyn Parker, in cui una cuoca disabile lotta per anni contro il sistema pur di ottenere un’abitazione dopo la devastazione dell’uragano Katryna:

 

I'm Carolyn Parker: the Good, the Mad and the Beautiful (2011)

di Jonathan Demme

 

 

«Ho avuto la fortuna di poter seguire il progresso dei lavori di recupero della casa di Carolyn dopo l’alluvione. All’epoca non sapevo che queste visite filmate si sarebbero protratte per cinque anni, per un totale di 21 visite. Né mi rendevo conto che sarebbe emerso col tempo il sorprendente ritratto di un’americana “qualunque“. Le testimonianze filmate del recupero della sua casa si sono trasformate in un documentario su una donna davvero eccezionale».

 

 

 

Alle 19:15 in Sala Grande e PalaBiennale è la volta di Al Pacino che, oltre a ritirare il premio alla carriera, presenta Fuori Concorso la sua terza opera da regista, l’affascinante Wilde Salome:

 

Wilde Salome (2011)

di Al Pacino con Al Pacino, Jessica Chastain, Kevin Anderson, Estelle Parsons, Roxanne Hart, Barry Navidi, Joe Roseto, Jack Huston, Phillip Rhys, Geoffrey Owens

 

 

«Wilde Salome è l’esplorazione di una pièce teatrale che mi ha impegnato per molto tempo. Ho spogliato l’opera di tutti i suoi costumi e scenari complessi, presentandola e analizzandola nella sua essenza. Jessica Chastain è sensazionale nel ruolo di Salomè e mi ha aiutato molto nella mia personale scoperta del mondo di Oscar Wilde. Wilde Salome non è un film narrativo tradizionale, né un documentario. È sperimentale, è l’emancipazione di un’opera che continua a vivere. Come gli straordinari attori del film, anche voi dovrete fidarvi di me e delle mie scelte e seguirmi in questo viaggio».

 

 

 

La sezione Orizzonti è pronta a diventare osé alle 21:30 in Sala Darsena con la proiezione di The Invader del belga Nicolas Provost, storia d’integrazione e violenza basato sulle conseguenze di ciò che in psicologia cognitiva si definisce “profezia che si autoadempie” e in cui la nostra Stefania Rocca (si, la stessa che qualche giorno fa consigliava di "darla") si lascia andare ad un amplesso più che focoso con un immigrato africano davanti alle finestre di un grattacielo:

 

The Invader (2011)

di Nicolas Provost con Isaka Sawadogo, Stefania Rocca, Serge Riaboukine, John Flanders, Carole Weyers, CinSyla Key, Tibo Vandenborre, Dieudonné Kabongo, Noureddine Farihi

 

 

«Il protagonista di The Invader è un uomo forte e determinato, spinto verso l’autodistruzione dalla sua stessa forza vitale e dal desiderio di una vita migliore. Come molti antieroi del grande schermo, Amadou è un emarginato in cerca di un posto nel mondo. Oltre a narrare una storia semplice ma universale, volevo che The Invader raccontasse i tempi in cui viviamo, in cui la società occidentale deve confrontarsi con i popoli emigranti e con le loro diverse culture. Il mio obiettivo principale, in qualità di videoartista, è stato comunque quello di creare un’opera cinematografica e non di lanciare un’invettiva politica. Nel mio film non ci sono slogan, ma soltanto il carattere di un uomo, il suo viaggio e (spero) la poesia delle immagini».

 

 

 

Tutt’altra invece è la musica – è il caso di dirlo – proposta dagli Eventi di Controcampo alle 21:45 in Sala Darsena: si proietta Pivano Blues della giornalista Rai Teresa Marchesi, che per l’occasione è accompagnata da Patti Smith e i Litfiba:

 

Pivano Blues - Sulla strada di Nanda (2011)

di Teresa Marchesi con Abel Ferrara, Vasco Rossi, Patti Smith, Francesco Guccini, Luciano Ligabue, Luciana Littizzetto, Lou Reed, Fabrizio De André, Erica Jong

 

 

«I sentimenti da cui è nato negli anni ’80 il mio affetto più che filiale per Fernanda Pivano sono gli stessi che ho ritrovato negli occhi e nelle parole delle migliaia di ragazzi che puntualmente facevano ressa intorno a lei in tutte le sue apparizioni pubbliche: ammirazione e gratitudine. Siamo in tanti a esserle debitori di pagine e pagine di letture appassionate, di scoperte e speranze che sentivi di condividere non solo con i “suoi“autori ma anche con lei. Nanda se n’è andata nel 2009, la sua battaglia no. Ci ha insegnato che i libri continuano a vivere solo se “passano“ nella coscienza comune attraverso tutte le forme d’arte e di comunicazione. Come diceva lei, i poeti non cambiano il mondo, ma cambiano le anime».

 

 

In Sala Volpi alle 22 ritornano le Giornate degli Autori con il primo film girato nella striscia di Gaza dopo oltre vent’anni di guerra, Habibi di Susan Youssef:

 

Habibi (II) (2010)

di Susan Youssef con Maisa Abd Elhadi, Kais Nashif, Yosef Abu Wardeh, Amer Khalil, Basel Husseini, Suhell Nafar, Najwa Mubarki, Tamer Nafar, Sami Said, Jihad Al-Khattib

 

«Quando nel 2001 Israele stringe sotto assedio Gaza, due giovani amanti sono costretti a lasciare l'università. La relazione tra i due è ostacolata dalla famiglia di Layla che vuole farla sposare con un altro uomo. Qays, però, non si arrende e scrive del suo amore su tutti i muri della città, suscitando grave scandalo e l’ira del fratello di Layla che, unitosi nel frattempo ad Hamas, inizia una caccia all’uomo. «Ho visitato Gaza per la prima volta nel 2002 mentre giravo Forbidden to Wander. È stato allora che ho visto dei bambini recitare il “Majnun Layla” [racconto del settimo secolo in Arabia, in cui si narra l’amore tra Layla e un poeta di nome Qays]. [...] È stato anche il momento in cui Mohammed, il direttore di un teatro locale, si è unito a me aiutandomi a girare il documentario [...] Mi sono innamorata di lui. L'esperienza di assistere alla performance dei bambini e di trovare l'amore a Gaza, mi hanno obbligato a rinarrare la legenda nella Gaza di oggi

Mi auguro che Habibi raggiunga almeno tre scopi: mostrare il cambiamento delle donne arabe, raccontare l’evoluzione della società palestinese in bilico tra tradizioni culturali e resistenza politica e mostrare come la poesia e la parabola mostrata diano voce al vero desiderio della società palestinese attraverso un’espressione d’amore e non di violenza».

 

 

Alle 22 in Sala Grande e al PalaBiennale spazio al Concorso con Shame del giovane regista inglese Steve McQueen, forse l’unico titolo davvero scandaloso: si annunciano pixel a non finire per le diverse scene di nudo integrale e frontale di Michael Fassbender (secondo film in Concorso per l'attore, dopo A Dangerous Method di Cronenberg)!

«Shame prende in esame una persona che gode di tutte le libertà occidentali e tramite la sua apparente libertà sessuale crea la propria prigione. Mentre assistiamo, e ci desensibilizziamo, alla costante e continua sessualizzazione della società, come facciamo a orientarci in questo labirinto e a non farci corrompere dall’ambiente che ci circonda? Ciò che intendo esplorare è questa enormità che fingiamo di ignorare».

 

 

 

Si chiude a mezzanotte in Sala Grande il Fuori Concorso con il lungometraggio ceco Alois Nobel di Tomàs Lunàk, animazione per adulti, tetra e in bianco e nero, basata su una popolare graphic novel, ancora non arrivata da noi:

 

Alois Nebel (2010)

di Tomás Lunák con Miroslav Krobot, Karel Roden, Marie Ludvikova, Leos Noha

 

«La storia del film è ambientata nei Monti Jeseníky, una regione di confine che fa parte dell’area conosciuta in passato come i Sudeti. Nell’arco degli ultimi cent’anni, ci sono poche altre aree dell’Europa Centrale che condividano un passato altrettanto brutale e violento di quello dei Sudeti. Uno dei momenti più tragici ebbe luogo nel secondo dopoguerra, quando più di due milioni di tedeschi residenti in Cecoslovacchia furono espulsi dal paese. Durante questo periodo di violenza circa 30.000 tedeschi furono uccisi. Questo trauma enorme, ancora percepito nella regione, e che la società ceca non ha ancora risolto, è uno dei temi principali del film. Il protagonista è tormentato da visioni ricorrenti di eventi tragici e dai ricordi della sua espulsione. Deve cercare di capirli per poter trovare la pace».

 

 

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