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Non vedo abbastanza film italiani. Anzi riformulo. Non vedo abbastanza vecchi film italiani. Soprattutto considerando che ogni volta che succede, ne rimango entusiasta.

Questo fatto inglorioso accade perché vivendo all'estero non ho la possibilità di farmi ispirare dalla programmazione televisiva e quindi la decisione di lanciarmi nella nostra cinematografia è sempre affidata alla volontà. E comunque ho sempre bisogno almeno di uno spunto.

A convincermi questa settimana è stata la lettura di uno degli ultimi Overlook (la rubrica con cui Andrea Pirruccio racconta la relazione tra i film e le case quando sono importanti e hanno un ruolo nell'economia dei film) che mi ha offerto un valido pretesto per mettere in fila la visione di Dramma della gelosia e La terrazza di Ettore Scola, tra i quali si è infilata perfettamente quella di Brutti, sporchi e cattivi, componendo un tris d'assi che copre dieci anni chiave della nostra storia. Non solo cinematografica.

Perché, certo, questi tre film che stanno tutti all'interno del genere commedia all'italiana - anche se il registro di Brutti, sporchi e cattivi è più che altro il grottesco - fanno esattamente quello che le nostre commedie facevano egregiamente in quegli anni: mostrare cosa stava accadendo nella società producendo una risata empatica (o almeno consapevole) ma evitando di mettere in campo qualsiasi forma di autoindulgenza. Rivisti oggi non hanno perso un lumen del loro splendore anche se, con il senno di poi, la risata si è trasformata in un ghigno e la mancanza di autoindulgenza si ferma proprio sulla soglia della crudeltà.

Al netto della sperticata simpatia che è impossibile non provare per il personaggio di Monica Vitti in Dramma della gelosia, questa volta mi ha colpito particolarmente il linguaggio con il quale Adelaide si esprime. Non tanto per la sgrammaticata composizione delle sue frasi ma per il fatto che quei marchiani errori sono inseriti in espressioni vagamente forbite, scopiazzature di una specie di giornalismo da cronaca nera miscelate con una dialettica da fotoromanzo (clamorosa invenzione tutta italiana, Cesare Zavattini e Damiano Damiani, poi esportata in tutto il mondo).

Un ibrido esplosivo, comico e mostruoso, che ben rappresenta il percorso, la finta ascesa, di una ragazza di sana ignoranza verso i piani intermedi di un malsano benessere, che strappa l'autentica venditrice di fiori dall'appassionante triangolo con Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini e la proietta tra le convenienti braccia di un ricco macellaio e tra le canne, le maioliche e le colonne di Casa Papanice.

Come giustamente fa notare Pirruccio nel suo articolo, appena al di fuori di quella grottesca, malamente lussuosa, residenza, la vera Roma del sottoproletariato è ancora costruita tra (e con) i rifiuti e i detriti. La stessa spazzatura, la stessa decadenza, che costituisce lo scenario principale di Brutti, sporchi e cattivi con cui Scola, posizionandosi proprio a metà degli anni 70, poggia il focus impietoso sul borghetto dei sorci di Monteciocci e su quella congrega di zombi còlti nell'atto di assorbire, ingerire e digerire, il peggio della modernità che verrà.

Pur senza affondare il coltello della critica sociale, Scola sceglie in Brutti, sporchi e cattivi di mostrare la Roma "capoccia der monno infame" che sopravvive nelle baraccopoli a pochi chilometri di distanza (e a una manciata di anni) dalle storiche residenze del centro dove i borghesi di La terrazza (1980) stanno già agonizzando, boccheggiando nella melma della propria disillusione e soccombendo ai propri sensi di colpa.

Se alcuni di loro hanno mostrato solo il desiderio di sfruttare quell'epoca facendo i soldi, altri avrebbero potuto cambiarla e non hanno avuto il coraggio, la forza o anche solo la necessità per farlo davvero. Fino a quando la modernità non li ha sorpresi tutti, approfittando di qualsiasi distrazione, spargendo il sale sulle loro ferite, sorpassandoli da destra e, se non era sufficiente, sparandogli alle gomme.

E quindi sono lì, spiaggiati su quella terrazza romana, a parlarsi o a piangersi addosso, a citare i loro alti riferimenti culturali, succubi di donne che li sfruttano, li umiliano (anche quando li sostengono incondizionatamente), li deridono. Spesso giustamente. Che siano uomini di solidi principi, ispirati dai più nobili ideali, scrittori senza nulla da scrivere, mangiati vivi dall'ambizione di affrontare grandi temi ma ammaliati dalla tentazione di far ridere, o piccoli imprenditori senza scrupoli e senza visione che con la modernità volevano solo arricchirsi.

Sono passati quarant'anni da La terrazza - e da quel ritratto impietoso di una certa sinistra vagamente colta, sicuramente triste, scarsamente ispirata, con evidenti tendenze autolesioniste (il dito scarnificato dal temperamatite elettrico di Jean-Louis Trintignant) e già lontana anni luce dalle istanze della comunità di cui pensava di essere interprete - ma ci sarebbe da riflettere sugli strali che la politica riservò a Scola al tempo in cui il film uscì, dopo le vittorie a Cannes e ai Nastri d'Argento, alla luce dello stato della sinistra attuale.

Sono passati quarant'anni dalla fine di quel decennio così importante per lo sviluppo del nostro paese e quindi anche da questi tre ritratti della Capitale che a molti parvero eccessivi, pretestuosi, infondati e che valsero a Scola un piccolo esilio politico (e persino i rimbrotti dell'allora Presidente della Repubblica), ma a me sembra che il regista abbia solo puntato il microscopio sul vetrino di una coltura da cui, non così tanto tempo dopo, è venuta fuori la Roma di Suburra. Perché gli anni '80 erano già li, sul vetrino.

Se il lessico di Monica Vitti in Dramma della gelosia apre i '70 (e il tris) producendo ancora qualche bellissimo, ingenuo, nostalgico, sorriso (Hai voluto spubblicamme e allora sia! Sì, amo riamata Serafini Nello e lo appartengo!) è una delle battute finali di La terrazza, solo dieci anni dopo, a lasciarmi di sasso, sulla soglia della contemporaneità, con l'amaro in bocca, a chiedermi cosa sia successo.

A che ora è la rivoluzione, signora?
Come si deve venire?
Già mangiati?

Sì, anzi no. Divorati vivi.



Ne voglio ancora!
Consigli?

Il titolo di questo testo è ispirato ai meravigliosi strafalcioni di Adelaide in Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca oltre ad essere anche il titolo di questa traccia della colonna sonora del film, opera di Armando Trovajoli, autore, peraltro, delle soundtrack di tutti e tre i film.


Ma la mia traccia preferita è questo qui decisamente beat che si intitola Incontro alla balera con Monica Vitti che si muove in un modo irresistibile.



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