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Non faccio ridere
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Solitamente i fenomeni che escono dall’attualità più stringente mi lasciano tiepido. L'ultimo film di (..), l'ultimo spettacolo di (..), l'ultimo disco di (..): faccio fatica, lo ammetto. Limite mio, lo ammetto. Ho una coda così lunga di cose da vedere e ascoltare che spesso me la ritrovo davanti e finisco per inciamparci. Viviamo in un'epoca dell'abbondanza - perlomeno nel mercato dell'intrattenimento perché poi magari mancano acqua e materie prime - e la maggiore difficoltà è rappresentata dalla mancanza di strumenti per fare selezione, non certo dalla scarsità di prodotti "culturali".

Poi ogni tanto invece, per una congiuntura astrale o casuale, succede che guardo (o leggo, o ascolto) qualcosa proprio mentre lo guardano/leggono/ascoltano tutti e mi inserisco con grande soddisfazione nel flusso mainstream. È il caso di Inside, il nuovo spettacolo del performer Bo Burnham, pubblicato su Netflix qualche settimana fa, sul quale mi sono arrivate diverse segnalazioni, di cui una fondamentale (grazie g.), e che ho deciso di guardare. E perfino di riguardare, dopo aver deciso che ne avrei parlato qui.

Non voglio accatastare troppe premesse perché ritengo che un eccesso di informazioni rischi di essere letale per un prodotto di questo tipo e quindi mi limito a offrirvi un risicato quadro di massima: Bo Burnham è uno spilungone del 1990 che ha conosciuto da giovanissimo un discreto successo come YouTuber. La sua specialità era, e parzialmente lo è ancora, quella di confezionare brevi canzoncine con melodie piuttosto elementari sulle quali innestare testi ironici o sarcastici che lavorano in opposizione rispetto al registro musicale. Cose semplici suonate alla chitarra acustica su cui si accumulano strati di complessità, lavorando con spontaneità e mestiere con i toni di voce, i gesti, le spigolature delle parole, la costruzione delle frasi. Messo sotto contratto dalla Comedy Central Records ha pubblicato qualche disco, ha fatto una serie di tour negli Usa, poi è apparso in Funny People di Judd Apatow, in Libera uscita dei fratelli Farrelly, poi è arrivata una serie per Mtv, un paio di spettacoli pubblicati su Netflix, ha scritto e diretto un film (Eighth Grade - Terza media) e, per ultimo, ha ottenuto un ruolo da co-protagonista nel film Una donna promettente che uscirà in sala il 24 giugno.

Nel 2020, chiuso in casa come tutti, ha deciso di mettere a frutto il lockdown registrando uno spettacolo tra le quattro mura di una stanza della sua casa che, giustamente, si intitola Inside. Lo spettacolo si apre con una camera fissa che riprende con un grandangolo uno spazio abbastanza opprimente i cui gli unici elementi di arredo sono composti da un grande tavolo, un cassettone, un microfono professionale, una tastiera e uno sgabello. Sulla sinistra una finestra con le veneziane abbassate da cui filtrano lame di luce. Un accordo di sintetizzatore un po' misterioso sottolinea la presenza di un'altra lama di luce che filtra dall'unica porta della stanza che lentamente si apre e dalla quale entra lui, Bo. Stacco. Nero. Titoli di testa.
L'accordo di synth si trasforma in un pezzo di musica elettronica vagamente anni ’90, Bo è seduto sullo sgabello, ha i capelli lunghi, l'espressione provata un po' disfatta, la fronte fasciata da un oggetto di difficile comprensione, sembra un cilicio o una moderna corona di spine. E lui, Bo, forse è il messia. Invece no, l'oggetto che porta in fronte è una torcia da minatore che quando viene accesa, con una scelta di tempi assolutamente scientifica, illumina una palla da discoteca posta sul soffitto che ruotando riempie di riflessi la stanza. Di colpo possiamo tutti vedere come sia letteralmente inondata di strumenti musicali, microfoni, cavi, luci, telecamere: tutto l'occorrente che potrebbe stare su un set di un film, rinchiuso, ammonticchiato, in una sola stanza. Ovvero il risicato perimetro, l'area opprimente di cui Bo Burnham metterà alla prova i (propri) limiti.


In questa prima sequenza di Inside è già presente tutto il materiale concettuale che verrà poi letteralmente sbattuto in faccia allo spettatore per un'ora e mezza. C'è l'ironia esplosiva che se ne sta accovacciata in una lieve sfumatura di una parola che sembra buttata lì a caso. C'è la completa, totale ed anche un po' tragica ricerca di originalità di chi è raramente soddisfatto di se stesso. C'è quella radiosa aura di chi osa sperimentare e subito dopo sente il bisogno di ridimensionare la propria ambizione creativa con una sana dose di autoironia con cui rimettersi in riga, da solo. E soprattutto - e questo è il principale motivo di interesse ai miei occhi - c'è un talento naturale in termini di regia, una capacità innata nel posizionare la camera nel posto migliore possibile per dire cose che se fosse un libro ci vorrebbero pagine. Un talento che, dovuto ai tempi dilatati messi a disposizione dal lockdown, si fa ossessione, o se ne nutre. Ore ed ore passate a pensare, concettualizzare e poi distillare la posizione di una singola luce per ottenere un preciso effetto. E non voglio pensare al tempo speso a montare tutto il materiale che avrà girato nella solitudine senza tempo della sua stanza laboratorio.


Bo Burnham non è semplicemente un comico, anzi, non è affatto un comico. Non perché non faccia anche ridere, a volte, ma perché è principalmente un autore che ha fatto sue alcune performance fondamentali di Jim Carrey (Man On The Moon, The Truman Show, Kidding), che si è nutrito dei tempi comici, delle pause e delle imitazioni al vetriolo di certi vezzi molto americani (ma ormai globali) stigmatizzati da Louis C.K., che ha immagazzinato i formati brevi di Instagram e quelli dissacranti e sarcastici di certi profili di TikTok, cucendoseli addosso. Dentro a Inside c'è tutto il primo 20% del ventunesimo secolo, ci sono le nostre manie, i nostri tic, c'è la ipersemplificazione dei grandi temi (razzismo, sessismo, omofobia), il disvelamento della retorica dei buoni sentimenti, ci sono l'estetica vuota dei selfie, le foto dei tramonti e le espressioni intense, meditative o superficialmente raggianti di certe "White Woman Instagram". E soprattutto c'è la possibilità di intuire una grande verità: siamo abituati a pensare che la nostra creatività sia frustrata dalla mancanza di libertà, dagli spazi ristretti, dai perimetri ridotti dei nostri orizzonti ma è proprio in presenza di limiti reali e concreti che la creatività smette di essere una sterile, abusata, parola e diventa strumento di accettazione, conoscenza, ricerca, a volte rinascita.


Bo Burnham è un personaggio magnetico e polivalente: canta (bene), suona chitarra e tastiere, compone le proprie musiche, scrive testi, ci sa fare con le luci, sa dove piazzare la videocamera per ottenere il massimo risultato possibile e, infine, è anche un attore molto dotato. Se vi capiterà di andare a vedere Una donna promettente di Emerald Fennell, ve ne renderete conto nell'esatto momento in cui entra nello schermo, anche senza sapere chi sia, perché ha una presenza scenica impressionante e sembra sempre conoscere, anzi, sentire quale porzione di schermo occupare e quale spazio, anche non puramente fisico, gli riserverà lo sguardo dello spettatore.

Bo Burnham è in sostanza lo Zelig del ventunesimo secolo. Potrà non piacervi, non farvi ridere, ma è difficile che lasci indifferenti.

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