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Venezia 2018: Giorno 2
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Al suo secondo giorno di proiezioni per stampa e pubblico Venezia 75 comincia a calare gli assi nella manica, sfoderando in concorso due titoli su tre che rivedremo sicuramente nel palmares di sabato 8 settembre. Si tratta di Roma di Alfonso Cuaron e di La favorita di Yorgos Lanthimos, due titoli che pur guardando al passato parlano molto del nostro presente. L’ambientazione in epoca più o meno distanti dalla nostra sembra quasi una costante di questi primi giorni del concorso (e non solo): dopo gli anni Sessanta di Il primo uomo, sono arrivati gli anni Cinquanta di The Mountain di Rick Alverson, gli anni Settanta dell’opera di Cuaron e addirittura il XVIII secolo per Lanthimos. Non sappiamo se si tratti di pura casualità ma non si può non rivelare come al momento non ci sia stato nessuno in grado di leggere nel nostro presente: è un dato che suscita sì curiosità ma, permettetemelo, anche preoccupazione.

 

La prima proiezione di The Mountain di Alverson non può che lasciare basiti per almeno un paio di ragioni. Innanzitutto, la trama. Le poche righe di sinossi concesse ci indirizzano verso la storia di Andy, un adolescente introverso che, rimasto orfano di padre e con un madre ricoverata in chissà quale ospedale psichiatrico, accetta di fare da assistente al dottor Fiennes, che nell’America del periodo è abbastanza conosciuto nell’ambiente medico per essere uno dei primi pionieri dell’elettroshock e della lobotomia. Chiaramente, siamo di fronte a una storia di fiction che, però, trova più di qualche corrispondenza nella realtà, facendo pensare all’enigmatica figura del dottor Freeman, colui che esportò realmente la tecnica della lobotomia transorbitale dalla Gran Bretagna agli USA. Il Fiennes raccontato da Alverson è un losco figuro che in nome della scienza e delle donne con cui copulare sfrutta le tragedie altrui per andare avanti. Se ne accorgerà presto sulla sua pelle anche il povero Andy quando incontrerà Susan, l’adolescente figlia di un precettore francese da sottoporre a terapia.

Nel film di Anderson nulla viene lasciato al caso ma la maestria, spesso fredda e gelida, con cui il regista costruisce le scene non trova contraltare nella sceneggiatura: levata la linea orizzontale garantita dal racconto nella sua forma minima, non si capiscono le tangenziali che talvolta la storia prende. Ci sono indizi che vengono disseminati e che fanno sperare in certe direzioni. Andy viene dipinto dapprima come introverso, ossessionato dal sesso (di cui reprime gli istinti ma che lo insegue tramite la figura di un transessuale nudo o le immagini pornografiche delle riviste vietate), vittima silenziosa degli abusi psicologici del padre (un Udo Kier che lascia lo schermo troppo presto) e amante della fotografia. Di tutto ciò, però, non resterà nulla: il regista fa tabula rasa degli elementi e lobotomizza il racconto, privandolo di ogni sfumatura con una scelta radicale che rende Andy e Susan, innamorati per caso, in due essere linfatici, in due vegetali senza alcun pensiero.

Gli anni Cinquanta così facendo diventano gli anni in cui piuttosto che l’utopia della Grande America nasce l’utopia del tutti uguali. Che quella di Alverson sia una critica alla società moderna è fin troppo evidente nella figura di Denis Lavant, precettore francese che disquisisce da ubriaco di arte e pretende di avere davanti a sé un pubblico di non pensanti, di zombie dallo sguardo vuoto. In Lavant, purtroppo eccessivo ed esagerato, è possibile rivedere uno dei moderni guru che in nome del global desidera rendere appetibile il suo pensiero a un pubblico di celebrolesi, privi di discernimento. La follia o la pazzia dell’essere speciali e unici viene combattuta come un nemico: il solo a poter raggiungere la vetta della montagna e capirla è il maschio bianco in grado di non accontentarsi di un’immagine riprodotta su un muro. Sarà questa la ragione per cui il finale appare buonista e appiccato: senza andare oltre, è a suo modo un happy end che si scontra con le atmosfere fredde che il film ha seguito sin dall’inizio. Poggia però solidamente sulle spalle del promettente Tye Sheridan e dell’ineccepibile Jeff Goldblum, a suo agio nei panni di un medico che non fa nulla per farsi piacere (è spontaneo chiedersi se il suo dottore non sia altro che la risposta a tutti i Good Doctor che imperversano in televisione).

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LA PAROLA AL REGISTA

«Il film di tenta di usare la forma al pari di una forza per combattere, e la nostalgia e la bellezza come un’esca per lo spettatore. Il cinema popolare americano ha sempre esportato utopie commerciali irraggiungibili e gli istinti del pubblico degradato al posto del pensiero critico. Ciò da un certo punto di vista costituisce sia il soggetto sia la forma di The Mountain».

Tye Sheridan, Hannah Gross

The Mountain (2018): Tye Sheridan, Hannah Gross

 

Dagli anni Cinquanta ci si sposta velocemente agli anni Settanta di Roma, opera che Alfonso Cuaron torna a girare in Messico dai tempi di Y tu mama tambien. Il periodo in questione è quello che va dagli ultimi mesi del 1970 ai primi mesi dell’estate del 1971 e si è a Città del Messico, una metropoli che sta vivendo importanti cambiamenti dal punto di vista urbanistico, politico e sociale. In periferia, vive una famiglia borghese, composta da madre insegnante di biochimica, padre medico, suocera e quattro bambini (tre maschi e una femmina). Tutto sembra procedere per il meglio, la coppia lavora e alla casa badano due domestiche poco più che donne, Adela e Cleo. In casa, regna sovrano il caos, complicato anche dalla presenza di un cane e di diversi uccelli tenuti nell’androne/cortile/garage. Ben presto, l’uragano che butta all’aria sentimenti e stabilità fa la sua comparsa: la padrona, donna Sofia, viene abbandonata dal marito proprio mentre Cleo, sedotta e messa incinta, è lasciata sola dal suo fidanzatino. Accettando di portare avanti la gravidanza, Cleo inizia a convivere con la figlia che tiene in grembo: pian piano, silenziosamente, instaura con lei un rapporto di silenzioso attaccamento che, nel bene o nel male, darà vita a ulteriori sviluppi, che non si raccontano per evitare lo spoiler.

Tornando nel suo Messico, Cuaron porta con sé la maestria e le tecniche di ripresa apprese all’esterno. In un bianco e nero che sembra uscire fuori da un melodramma italiano con protagonista la dimenticata Yvonne Sanson, Cuaron fa gravitare e levitare la sua storia con l’assoluta poesia delle immagini. Le riprese, spesso campi lunghi che culminano in primissimi piani, sono ferme e precise: mai un movimento di camera salta all’occhio. La ricostruzione degli ambienti, degli esterni e persino dei dintorni della città è di una maniacale precisione, e azzeccata si rivela la colonna sonora, in grado di accompagnare il racconto ora con il giusto pathos ora con leggerezza: non si può non sorridere al passaggio della banda musicale, che in maniera ciclica viene mostrata sia all’inizio sia alla fine del lungometraggio per segnare i due cambiamenti nell’esistenza della casa. Forse, più che Cleo e la famiglia presso cui lavora, la vera protagonista di Roma, che deve il suo nome al quartiere in cui è ambientato e che è facilmente anagrammabile in “amor”, è la casa, quell’ambiente che con il suo caos o il suo ordine diventa metafora di equilibrio interiore. Paradossalmente, un occhio attento si accorgerà come il disordine iniziale di ogni stanza quando si vive tutti in armonia sia inversamente proporzionale all’ordine che invece si ha sul finale, quando la disarmonia dei sentimenti porta inequivocabilmente a un nuovo equilibrio: più gli spazi diventano vuoti o aperti, più i sentimenti e gli affetti si fanno sinceri. Tale osservazione trova sostegno in altri momenti, a cominciare dalle sequenze al campo di arti marziali in cui si allena il fidanzato poco affidabile di Cleo a quelle del tristemente noto massacro del Corpus Christi (quando un gruppo paramilitare, appoggiato dal governo, ha ucciso più di 120 studenti tra le strade della capitale messicana) e sulla spiaggia di Tuxpan (da manuale le sequenze tra le onde dell’oceano).

Cosa ci sia di autobiografico o meno nel racconto è di difficile comprensione. Quello che è evidente è invece il grande amore che il cineasta riserva alle figure femminili che hanno di certo segnato la sua infanzia. Ma anche il grande amore per il cinema in sé, rappresentato da estratti di classici come Tre uomini in fuga o Abbandonati nello spazio. Del resto, Roma dà risalto alla memoria: il confine tra il ricordare e il dimenticare è talmente labile che anche una sola mareggiata può cancellarlo.

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LA PAROLA AL REGISTA

«Mentre stavo finendo le riprese del film precedente, mi ripromisi che il prossimo sarebbe stato qualcosa di più semplice e di più personale. Mi resi conto che infine era giunto il momento di tornare indietro e di fare un film in Messico, ma con tutte le risorse, tutti gli strumenti e tutte le tecniche che avevo acquisito nel corso degli anni. Con un programma di riprese di 180 giorni, il più lungo in assoluto di tutti i miei film, ho messo a fuoco i dettagli di ciò che io e la mia famiglia ricordavamo di quel periodo».

Yalitza Aparicio

Roma (2018): Yalitza Aparicio

 

Con la macchina speciale che solo il cinema sa pilotare, Yorgos Lanthimos accetta di lavorare su commissione a una storia non sua e ci porta alla corte inglese dei primi anni del Settecento con La favorita. Sul trono siede la regina Anna Stuart, una fragile figura tormentata dalla gotta che i libri di storia (inglese e non) hanno sempre evitato di approfondire. Di lei ci si ricorda per il fatto di non aver lasciato eredi al trono, nonostante le 17 gravidanze avute (tutte terminate in maniera tragica). Per la fantasia di Lanthimos e, soprattutto, degli sceneggiatori Deborah Davis e Tony McNamara tale assenza di successori diviene terreno fertile per costruire una vicenda di lotte di potere, avidità, invidia e inganni, ingegnati da diverse figure femminile che alla sovrana si sono avvicinate. In particolar modo a divenire oggetto di interesse è l’amicizia della sovrana con le scaltre Lady Sarah Churchill e sua cugina Abigail. Le lingue più biforcute hanno ipotizzato che la sovrana avesse per le due più di una semplice simpatia e hanno considerato le due donne come le vere artefici delle decisioni prese dalla regina in campo internazionale. Curiosamente, infatti, sono quelli gli anni in cui l’Inghilterra si impone come potenza globale in Europa e non solo.

Addentrandosi nelle stanze del palazzo reale, sontuosamente ricostruito e fotografato, Lanthimos spia dal buco della serratura ciò che avviene dentro la camera da letto di Anna senza risparmiare nulla allo spettatore. Dai primi minuti, apprendiamo quanto la regina soffra per via della gotta e dei dolori che questa comporta. Ma capiamo anche quanto forte sia il legame che ha instaurato con Sarah, compagna di decisioni e di scorribande tra le lenzuola. Sebbene sia sposata da tempo con un comandante dell’esercito impegnato in guerra in Francia, Sarah non disdegna di concedere piacere alla sovrana, totalmente incapace di separare ragione e sentimento, come tradizione letteraria inglese impone. I toni farseschi scelti dal regista si acuiscono nel momento in cui fa la sua comparsa Abigail Hill, giovane cugina di Sarah caduta in bassa fortuna a causa dei vizi del padre. Dapprima accolta a palazzo come sguattera, Abigail con i suoi sotterfugi riesce a sostituire Sarah nel cuore della sovrana, arrivando a studiare strategie e stratagemmi per estrometterla per sempre dall’Inghilterra.

Suddiviso in otto capitoli che hanno per titolo alcune delle battute più sagaci pronunciate dalle tre protagoniste, La favorita procede spedito senza intoppi o cali di tensione. Seppur sia un dramma storico con tutte le caratteristiche chiave del genere (la guerra, le tensioni con il popolo e le inevitabili invidie di corte), risulta difficile non sorridere per la sagacia della sceneggiatura, che pone di fronte a dialoghi o situazioni al limite del surreale o del grottesco, senza perdere minimamente in credibilità. Tutto ciò è possibile grazie alla prova di tre attrici in stato di grazia: Rachel Weisz, Emma Stone e, soprattutto, Olivia Colman, alle prese con il “ruolo della sua carriera”. Sono fortunatamente affiancate da tre comprimari abili a reggere un confronto che avrebbe azzerato chiunque: Nicholas Hoult (nei panni di un vanitoso leader dei Tories), James Smith (è un primo ministro amante dei complotti) e Joe Alwyn (il giovane marito che Abigail sceglie per la sua ascesa a corte). Fa piacere vedere inoltre per qualche minuto in azione Mark Gatiss che, apparendo nel finale come il marito di Sarah, si allontana del tutto dall’immagine che ha nella serie Il trono di spade. Pregio di Lanthimos, abile costruttore di quadri in movimento, è quello di aver reso attuale la riflessione sul potere e su chi realmente lo esercita senza perdere di vista certi cliché del suo cinema greco: spesso, ancora oggi, cosa accade nella stanza dei bottoni è un misto di sesso, passioni ed emozioni, figlie dell’amor che muove il mondo.

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LA PAROLA AL REGISTA

«Il mio interesse maggiore era osservare questi tre personaggi, il potere e la fragilità nei loro rapporti, e analizzare il modo in cui i comportamenti di così poche persone alterino il corso di una guerra e il destino di un paese. Per me si tratta di una storia d’amore piuttosto allegra e vivace, che poi diventa cupa. Non volevo creare il personaggio del cattivo e quello della vittima. Invece, l’idea di chi sia il cattivo e chi la vittima è mutevole, cambia e si sposta da un ruolo all’altro. In questo modo, il pubblico prova qualcosa in base a ciò che i personaggi fanno e non esprime su di loro un giudizio assoluto, anche quando fanno qualcosa di orribile»

Olivia Colman

La favorita (2018): Olivia Colman

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Lontano nel tempo, tra fine Ottocento e primi del Novecento, si colloca anche Tumbbad, opera indiana dei giovani Rahi Anil Barve e Adesh Prasad, al loro debutto nel lungometraggio. La storia fantasy affonda le radici nella cultura del loro Paese e parte da una leggenda che pur non essendo vera appare verosimile. Secondo la loro tesi, la dea dell’abbondanza (colei che custodisce ricchezza e cibo) venne attaccata dal suo unico figlio, Hashtar, per avidità. Costui, appropriatosi della ricchezza, non riuscì ad agguantare il cibo grazie all’intercessione degli altri dei, finendo condannato all’oblio e alla fame eterna. La sua figura però venne richiamata da un gruppo di sacerdoti che, nei pressi delle terre di Tumbbad, ebbero l’idea di erigere un tempio in suo nome. Avvolto da costanti piogge, il tempio divenne la culla di un’antica maledizione che colse, ha colto e coglie, tutti coloro che, spinti da avidità, si addentrano nel suo ventre. Hashtar vive infatti nelle profondità di quel tempio e, distratto dalla fame, fa letteralmente arricchire coloro che riescono a liberare le monete che custodisce sotto la sua pelle, come in uno speciale marsupio. Chi dovesse invece essere attaccato dal dio, sempre in preda alla fame, vivrà in eterno come una bestia affamata e deforme. Dopo decenni, la leggenda di Hashtar torna alla luce per via della sete di ricchezza del giovanissimo Vinayak, che apprende dalla bisnonna paterna come racimolare denaro. Scendendo nelle viscere della Terra, Vinayak diviene sì ricco ma il prezzo che pagherà sarà talmente alto da richiedere a lui e alla sua prole il sacrificio più alto.

È interessante notare come la cinematografia indiana, quella di Bollywood per intenderci, scelga di avvicinarsi a quella hollywoodiana con una storia che sembra venuta fuori dagli sceneggiatori della Lucas Film o della Amblyn. Siamo di fronte infatti a un continuo rimando a canoni che il cinema nazionalpopolare americano ha fatto propri dalla fiaba russa: l’eroe, l’antagonista e l’oggetto del desiderio sono costantemente presenti e al contempo estranei, lontani dal mondo a cui siamo abituati. La dimensione fiabesca, in questo caso dark, serve per mettere in scena una parabola appartenente a tutte le latitudini del mondo: l’avidità comporta, per contrappasso, un alto prezzo da pagare. Le monete raccolte nulla possono di fronte al conto che il destino o la Storia presentano. Sfidare la sorte è una gara persa in partenza: la volontà degli dei sta al di sopra della ragione, sebbene Vinayak non lo capisca prima del finale. Merito dei due registi indiani è quello di sopperire alla mancanza di tecnologia degli effetti speciali con mezzi artigianali che non sfigurano di fronte alle mega produzioni d’oltreoceano, ricordandosi che prima del computer gli effetti speciali erano garantiti dal trucco e dal suono. Il loro è in qualche modo anche un omaggio all’artigianalità del cinema stesso, frutto più dall’arte di ingegnarsi che della tecnologia.

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LA PAROLA AL REGISTA

«Il film è nato come reazione al cambio improvviso delle politiche mondiali per cui, in nome dello sviluppo, le persone sono disposte a perdonare molte cose e a difendere molte ingiustizie. La promessa di una vita migliore,  di  più  soldi,  di  più  prosperità,  l’avidità  di  questo  tesoro  mitico,  per  così  dire,  ci  sta  spingendo  sul  fondo  di  un  pozzo  oscuro.  Parole  come  empatia,  giustizia,  libertà  e  umanità  sono  percepite  come  freni  allo  sviluppo.  Il  Mahatma  Gandhi disse  una  volta  che  nel  mondo  c’è  abbastanza  per  le  necessità  di  tutti,  ma  non  per  l’avidità  di  tutti.  Questo  è  il  nucleo  di  Tumbbad  nella  sua  essenza  più  basilare».

Sohum Shah

Tumbbad (2018): Sohum Shah

 

L’arte di ingegnarsi e di reinventarsi è al centro anche di Il mio capolavoro, satira argentina diretta da Gaston Duprat, che proprio a Venezia qualche anno fa aveva presentato in concorso Il cittadino illustre con Mariano Cohn (che questa volta si limita a far da produttore). Al centro della vicenda grottesca e nera vi stanno un pittore e il suo rappresentante, Renzo Nervi e Arturo. Scontroso pittore ormai anziano il primo e avido gallerista il secondo, i due sono amici da una vita e hanno spesso finito con l’aiutarsi l’uno con l’altro. Del resto, in una società non malata, l’amicizia viene prima di ogni interesse economico e in nome di questa ci si può macchiare delle peggiori nefandezze, come accade ai due protagonisti, chiamati a mettere in scena l’inganno degli inganni per vivere meglio.

La storia ha luogo a Buenos Aires, capitale dell’emisfero australe in piena espansione. Lo stesso Nervi, asociale e apolitico, non stenta a definirla come la città dell’ambizione e della follia, elementi che di certo connotano anche il mondo dell’arte con l’ascesa dei prezzi delle opere di un artista alla moda o, nel migliore dei casi, deceduto. Non è forse l’arte che crea la propria arte? Da questa convinzione, Arturo elabora un piano che per ridare linfa alle opere di Renzo sfrutta la morte e la trasforma in miniera, in macchina per far soldi. La riflessione a quel punto diventa atroce: fino a che punto l’arte è tale? Quando smette di essere tale e si trasforma in mero business? Possono i soldi e la moda modificare la percezione soggettiva di un’opera? Può una crosta divenire capolavoro solo perché il suo autore è passato a miglior vita? Può un autore rinunciare alle sue ideologie in nome degli affari? Stando a Il mio capolavoro, sì.

La riflessione satirica di Duprat è accompagnata dall’ottima scrittura di tre personaggi, ognuno a modo suo, sopra le righe. Lo scontroso Nervi (un hijo de la puta, come spesso viene definito), l’affarista Arturo e il giovane studente Alex, chiamato a rompere le scatole al piano dei due, trovano un ottimo volto in tre attori in Europa poco noti: Luis Brandoni, Guillermo Francella e Raul Arevalo.

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LA PAROLA AL REGISTA

«Il  film  racconta  la  storia  di  un’enorme  truffa  nel  mondo  dell’arte,  e  parallelamente,  quella  dell’amicizia  tra  i  personaggi  interpretati  da  Guillermo  Francella  e  Luis  Brandoni.  Questi  due  grandi  attori  hanno  saputo  incarnare  alla  perfezione  lo  stile  della  pellicola,  regalandoci  un’interpretazione  memorabile.  È  un  film  fatto  di  tensioni,  pathos,  emozioni  ma  anche  di  molta  ironia.  Sia  per  Francella  sia  per  Brandoni  rappresenta  un  ritorno  alla  commedia. Oltre  alla  storia  intensa  e  potente  legata  alle  frodi  nel  mondo  dell’arte,  il  lungometraggio  riflette  sulle  contraddizioni  della  creazione  artistica  e  sui  limiti  dell’amicizia».

Luis Brandoni

Il mio capolavoro (2018): Luis Brandoni

 

E l’attore diventa fondamentale anche in Nessuno è innocente, cortometraggio di Toni D’Angelo, presentato fuori concorso alla Settimana della Critica. Nei suoi (purtroppo) pochi minuti, il lavoro del regista di Una notte, L’innocenza di Clara e Falchi, ripercorre la disavventura di Ermanno, che per lavoro è costretto ad addentrarsi tra le vie di Scampia. Alimentato dai luoghi comuni sul quartiere più difficile della città partenopea, Ermanno teme attacchi da ogni lato e vede nemici ad ogni angolo. Persino le mappe del navigatore del suo cellulare sembrano, nella sua ottica, essergli nemiche e tirargli brutti scherzi portandolo davanti a un capannone all’apparenza abbandonato.

Muovendosi in macchina, Ermanno scende solo per una sosta a un bar a chiedere informazioni ma la sua immagine deformata del quartiere non fa altro che fargli vedere criminali ad ogni angolo. Dal barista ai ragazzi in motorino, sono tutti cani pronti a sbramarlo, ad attaccarlo e a nutrirsi delle sue viscere. La sua percezione della realtà è talmente malata che lo porta a perdere l’innocenza e a macchiarsi di uno dei reati più truci che possano esistere: omissione di soccorso per un incidente che lo stesso, per timore, ha provocato. Di auto pirata parleranno i mezzi di informazione con vittima una giovane donna che rientrava dal lavoro, una giovane innocente. Ma a Scampia chi è veramente innocente?, si chiederà Ermanno. Nessuno, è la risposta di cui si convincerà.

Ermanno ha il volto di Salvatore Esposito, noto ai più per essere il protagonista malavitoso della serie Gomorra. D’Angelo ha la geniale idea di portarlo dall’altro lato della barricata, di fargli posare le pistole per farlo vestire di incertezze e dubbi, di spogliarlo di autorevolezza per renderlo fautore di feroce codardia. Le espressioni di Esposito, restituite da una telecamera che sembra volergli entrare sotto pelle o dentro gli occhi, dicono tutto anche senza proferire verbo: ciò che si legge nei suoi occhi è la paura che attanaglia di tutti coloro che il diverso o l’altro non riescono a spiegarselo se non attraverso le parole di chi diffonde luoghi comuni o innesta all’odio. Razzisti, xenofobi, classisti o estremisti che siano. Perché, in fondo, l’atro qualcosa ha sempre fatto: nella realtà o nella nostra malata distorsione da social network e fake news.

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LA PAROLA AL REGISTA

Siamo ormai tartassati da notizie di cronaca nera su Napoli e Scampia. I media ce ne danno una immagine a senso unico, se entri a Scampia rischi la vita. Ci entri e non sai se ne esci vivo. Le serie tv di successo, i romanzi, i programmi di politica sociale, tutti ne parlano. l’inferno di Dante non e niente a confronto. Sparatorie, assassinii, spaccio di droga. Solo questo fa notizia e solo questo arriva alla gente comune che vede ormai Napoli e Scampia alla stregua delle Favelas di Rio. A Scampia ci sono persone meravigliose. Gente per bene che però non viene raccontata. Il protagonista di questo cortometraggio vive di questi luoghi comuni che apprende dalle radio e dalle tv. Deve andare a Napoli a firmare un contratto per un appalto, una svolta per la sua carriera. ma una notizia renderà questo viaggio un incubo: il luogo dell’incontro e in un capannone situato a Scampia. Il navigatore accompagna il nostro eroe nei vari gironi dell’inferno immaginario della mente di quest’uomo. Ogni movimento o rumore, ma anche un semplice gesto di cortesia viene percepito da lui come minaccioso. Tutti lo seguono, lui e un forestiero... i cattivi sono tutti li... un viaggio nel disastro dei luoghi comuni tutto raccontato dal punto di vista distorto e acido del nostro protagonista.

 

Salvatore Esposito, Toni D'Angelo

Nessuno è innocente (2018): Salvatore Esposito, Toni D'Angelo

 

 

2 - Continua

 

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Venezia 2018: Giorno 1

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