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Cannes 2016: Giorno 4
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Il 69° Festival di Cannes per il quarto giorno affida il concorso alle mani di due cinematografie spesso ignorate dai distributori italiani, quella sudcoreana e quella austro-germanica: da un lato, abbiamo The Handmaiden, ritorno di Park Chan-wook al paese d'origine dopo la non brillante parentesi americana con Stoker, mentre dall'altro lato troviamo Maren Ade, la prima delle tre donne di quest'anno a competere per la Palma d'Oro, con il curioso Toni Erdman.

Ma è anche un sabato italiano, grazie alle proiezioni alla Quinzaine di La pazza gioia di Paolo Virzì e alla Semaine, fuori concorso, di I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin.

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The Handmaiden

Diretto e scritto da Park Chan-wook, The Handmaiden racconta la storia della giovane Sookee che, durante l'occupazione giapponese nella Corea degli anni Trenta, viene assunta come cameriera di Hideko, una ereditiera che vive quasi in isolamento in una grande tenuta di campagna con il prepotente zio Kouzuki. Sookee, però, nasconde un segreto: è in realtà, una ladra reclutata da un truffatore che si finge conte giapponese per essere aiutato a sedurre Hideko prima di derubarla delle sue fortune e di rinchiuderla in manicomio. Il piano sembra procedere secondo le aspettative fino al momento in cui Sookee e Hideko scoprono alcune inaspettate emozioni.

Park Chan-wook con The Handmaiden realizza un thriller ispirandosi a Ladra, romanzo di Sarah Waters, e trasferendone la storia dalla Londra del 1862 alla Corea degli anni Trenta. La vicenda ha al cuore la relazione sensuale che si crea tra la giovane ereditiera giapponese e la cameriera coreana, interpretate rispettivamente da Kim Min-hee e dall'esordiente Kim Tae-Ri. Primo film in costume realizzato dal regista, The Handmaiden si avvale della collaborazione del direttore della fotografia Chung Chung-hoon e della scenografa Ryu Seong-hee, a cui si deve la realizzazione dell'immaginaria tenuta in cui vive Hideko, caratterizzata da elementi di architettura europea e giapponese. A spiegare meglio la genesi del progetto sono le parole dello stesso Park Chan-wook: «Come accaduto con Old Boy, è stato il produttore a scoprire il romanzo e a chiedermi cosa ne pensassi. Sono sicuro che tutti i lettori hanno avuto le mie stesse sensazioni di fronte alla storia. La prima parte mi ha colto completamente di sorpresa e ho sin da subito amato lo stile preciso e chiaro dell'autrice. Ho scelto di farne un adattamento perché le due donne al centro del romanzo mi sono sembrate molto reali: una ha un passato oscuro mentre l'altra ha un presente disperato ma entrambe hanno grandi personalità e fascino.

Ho scelto di cambiare l'ambientazione dall'Inghilterra vittoriana alla Corea sotto la colonizzazione giapponese per ragioni pratiche. Quella della Corea di allora era una società in cui esisteva ancora la nobiltà, solita ad assumere domestici. Nonostante la modernità avesse cominciato a prendere il sopravvento, alcuni aspetti tradizionali erano duri a morire. A riflettere il binomio tradizione/modernità è anche la casa, fondamentale per il racconto. Kouzoki, zio di Hideko, ha una passione smisurata per il Giappone e l'Inghilterra e ciò si riflette nella residenza, occidentale nella parte in cui vivono i signori e giapponese in quella in cui si muovono i servi. Lo spazio più importante è poi la biblioteca: l'esterno risponde ai canoni dell'architettura tradizionale giapponese ma l'interno è occidentale. Per evidenziare i grandi spazi, avrei voluto girare in 3D ma per questioni finanziarie ho dovuto rinunciare, relegando ai movimenti di macchina il compito di aumentare la profondità e il clima di mistero e sospetti. Se avessi potuto, avrei girato anche su pellicola piuttosto che in digitale ma non è stato possibile: ho però usato delle lenti anamorfiche per creare delle immagini che ricordassero l'epoca.

Come in tutti i miei film, anche in The Handmaiden c'è qualcosa di divertente. L'umorismo in questo caso nasce dal fatto che i personaggi nascondono le loro vere identità, in molti casi nascondono i loro sentimenti e pensano qualcosa di molto diverso da quello che dicono. Sebbene non suscitino risate, sono elementi che possono strappare il sorriso».

Tutte le foto del film

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Toni Erdman

Diretto e scritto da Maren Ade, Toni Erdmann racconta la storia di Winfried, insegnante di musica che non vede da molto tempo la figlia Ines, oberata dal lavoro, e che decide di raggiungerla per farle una sorpresa. Il suo gesto, però, si rivela azzardato: Ines sta lavorando a Bucarest a un importante progetto a cui dedica tempo, dedizione e serietà. Il cambiamento geografico, inoltre, non aiuta i due a relazionarsi come si dovrebbe. Winfried, vero burlone, ama infastidire la figlia con scherzi banali ma la giovane donna non ha tempo per qualcosa che esuli dalla sua routine lavorativa. Padre e figlia arrivano dunque a un punto di non ritorno e, seppur a malincuore, Winfried accetta di ritornarsene a casa in Germania. Poco dopo la sua partenza, nella vita di Ines fa la sua comparsa lo strambo Toni Erdmann, che altri non è che il padre Winfried sotto mentite spoglie. Con un cappello di cattivo gusto, una strana parrucca e curiosi denti finti, Toni irrompe nella vita professionale di Ines spacciandosi come il life coach della compagnia per cui lavora. Ha inizio così un audace tira e molla che permetterà a Ines di capire di dover trovare posto nella sua vita per l'eccentrico genitore.

Con la direzione della fotografia di Patrick Orth, le scenografie di Silke Fischer e i costumi di Gitti FuchsToni Erdmann viene così presentato dalla regista: «Tutti i miei film hanno uno spunto di partenza autobiografico. Quando poi si parla di famiglia, è impossibile in fase di scrittura sfuggire alla propria esperienza: non c'è niente che si conosca meglio delle proprie origini. Si ha una sola famiglia e il rapporto tra genitori e figli è qualcosa che segna per tutta la vita e da cui non si può scappare. Ed è questo il fulcro di Toni Erdmann. Ines, la figlia, pensa che la famiglia in cui è cresciuta non abbia più rilevanza nella sua esistenza. Tutti sono intrappolati in ruoli già assegnati e le interazioni tra i componenti rispondono a rigidi modelli, quasi rituali, da cui nessuno può esimersi.

La trasformazione di Winfried in Toni non è altro che un coraggioso tentativo di rompere lo schema del rapporto padre-figlia. Toni è frutto della sua disperazione. L'umorismo spesso è la chiave per affrontare una situazione tragica e come tale è figlio del dolore: Winfried non è riuscito a ristabilire un contatto con la figlia e ha cercato invano di ridefinire il contatto con lei. Ha però perso e, mosso dal desiderio di starle vicino e dal risentimento che inevitabilmente prova nei suoi confronti, trova una curiosa via di uscita presentandosi sotto le mentite ed esuberanti spoglie di Toni. L'umorismo è l'unica arma a sua disposizione e vuole approfittarne. Ciò comporta la nascita di qualcosa di molto duro: Ines, del resto, è un osso duro ed egli è costretto a "parlare" l'unico linguaggio che la giovane donna capisce.

Ines lavora in un campo dominato dagli uomini e ciò rende i suoi conflitti prettamente contemporanei. Ha iniziato la sua carriera convinta che autodeterminazione e uguaglianza fossero caratteristiche tipiche della sua generazione, dando per scontato di non avere bisogno di far ricorso a idee femministe oramai obsolete. Non era mia intenzione criticare il mondo degli affari ma tale ambiente, dominato ancora dal sessismo, mi serviva per mostrare meglio la psicologia del personaggio.

Il conflitto tra padre e figlia ha anche valenza politica. Winfried ha combattuto tutta la vita per garantire alla figlia la fiducia e lo spirito indipendente di cui aveva bisogno per farsi strada nel mondo. Ines, invece, ha scelto di vivere un'esistenza molto lontana dagli ideali che il padre ha instillato in lei da bambina, optando per un campo lavorativo molto conservatore e orientato alle prestazioni. La libertà per cui la generazione di Winfried ha lottato ha spianato la strada a un capitalismo sfrenato in cui il profitto è lo scopo di tutto. Nonostante sembri ormai rassegnato al modo diverso di vedere le cose, Winfried lascia riaffiorare il suo vecchio essere ribelle nelle vesti di Toni».

Tutte le foto del film

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La pazza gioia

Diretto da Paolo Virzì e sceneggiato dal regista con Francesca ArchibugiLa pazza gioia racconta  l'imprevedibile amicizia tra due donne, Beatrice e Donatella, ospiti di una comunità terapeutica per pazienti con disturbi mentali e sottoposte a misure di sicurezza. Beatrice, interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, è una chiacchierona istrionica, sedicente contessa e a suo dire in intimità con i potenti della Terra. Donatella, portata in scena da Micaela Ramazzotti, è invece una giovane donna tatuata, fragile e silenziosa, che custodisce un terribile segreto. Diventando amiche, le due daranno vita a una strampalata e toccante fuga alla ricerca di un po' di felicità in quel manicomio a cielo aperto che è il mondo dei sani.

Con la direzione della fotografia di Vladan Radovic, le scenografie di Tonino Zera, i costumi di Katia Dottori e le musiche firmate da Carlo Virzì, La pazza gioia viene così descritta dal regista: «Dopo Il capitale umano, avevo tra le mani una dozzina di pagine di soggetto con protagoniste due pazienti psichiatriche dai caratteri opposti che si ritrovano, un po’ per caso, a scappar via dalla struttura clinica che le ospita. Una fuga dalle regole, dalle misure di sicurezza, dalle costrizioni della cura che diventa un girovagare sconclusionato ed euforico nel mondo fuori.

Volevo che fosse una commedia, divertente ed umana, una storia che a un certo punto non avesse paura persino di tingersi di fiaba, o addirittura di trip psichedelico, ma che non fosse campata in aria. Volevo raccontare anche l'ingiustizia, la sopraffazione, il martirio di persone fragili, di donne stigmatizzate, disprezzate, condannate, recluse. E però senza farlo diventare un pamphlet, un documentario di denuncia - ce ne sono già in giro di eccellenti. Cercavo, semmai, tracce di felicità, o perlomeno di allegria, di eccitazione vitale, anche nel momento della costrizione, dell'internamento. Si può sorridere o addirittura ridere raccontando il dolore, o è qualcosa di impudico, di scandaloso? Speriamo di sì, che si possa, perché è la cosa che preferisco nel fare un film. Per esempio in questo film, a un certo punto, mettiamo in scena un episodio tra i più feroci che mi sia capitato di filmare. Eppure mi rendo conto di aver cercato di raccontarlo con un tono persino felice. Mi è sembrato che fosse l'unico modo autentico che avevo a disposizione per avvicinarmi a un mistero altrimenti impenetrabile.

Prima di scrivere il copione, io e Francesca Archibugi  abbiamo cominciato col rompere le scatole a psichiatri e psicoterapeuti veri, dei quali avevamo adocchiato libri ed articoli, in libreria, sulle riviste, nei blog. Abbiamo chiesto loro di prenderci per mano e di accompagnarci nel mondo della strutture cliniche, delle loro storie di terapie. Abbiamo incontrato, nei luoghi della cura, i più diversi tipi di pazienti: i catatonici, gli eccitati, i melanconici, gli impiccioni, i sospettosi, i logorroici. Mi viene da aggiungere: come nella vita di tutti i giorni. Tra loro c'erano anche persone che le istituzioni, i giudici, i servizi sociali avevano sancito come pericolose, per aver compiuto gesti tali da condurle alla reclusione negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ed in questa esplorazione ci sono subito passate sotto gli occhi una gran quantità di Beatrici e di Donatelle, così sulle prime non riuscivamo a trattenerci dal far le classiche domande stupide: Che disturbo ha? Che malattia ha? Cos'è, una bipolare? Una depressa? Una borderline? Ma interessandosi alle vicende di ciascuna, ficcando il naso in quei vissuti spesso tumultuosi, abbiamo trovato tanta di quella trama che ci siamo appassionati proprio nel non definire l'identità di quelle persone con un referto medico, con il nome del loro disturbo, con i farmaci da prendere, col piano terapeutico. Volevamo soprattutto stare dalla loro parte. E stare dalla parte di Beatrice e di Donatella, con tutti i loro pasticci e le loro cazzate, significava riaffermare invece l'importanza, la totale preminenza della loro storia, fatta di tribolazioni, abusi, subiti e perpetrati, ma in tanti lati anche buffa, delirante, comica,scombiccherata. Le abbiamo amate scrivendole, le ho amate filmandole, perché ci facevano ridere, perché anche sul set, nel momento in cui sono diventate due esseri in carne ed ossa, nel loro stare insieme trasmettevano una misteriosa, irresistibile, contagiosa allegria. E quindi posso dire che se è vero che in questo film abbiamo messo in scena momenti cupi, sconsolati ed anche violenti, mi è sembrato per altri versi di non aver mai filmato tanta esaltazione, tanta ebbrezza, tanta ilarità».

Tutte le foto del film

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I tempi felici verranno presto 

 

Diretto da Alessandro Comodin e sceneggiato dal regista con Milena Magnani, I tempi felici verranno presto racconta la storia di Tommaso e Arturo, che sono riusciti a scappare cercando rifugio nella foresta. Ma si muore sempre quando meno te l’aspetti, anche se sei giovane, finalmente felice e non hai mai fatto niente di male. Tanti anni dopo, ai giorni nostri, la foresta pare sia infestata da lupi affamati. Nessuno si ricorda della storia dei due giovani, ma proprio in quella foresta Ariane scopre uno strano buco. Ariane è forse, allora, la ragazza di cui parla quella leggenda della valle? Il perché Ariane sia entrata in quel buco rimane un mistero, fatto sta che poi, di lei, non s’è saputo più nulla. Ognuno la racconta a modo suo questa storia, ma tutti concordano nel dire che Ariane il lupo l’ha incontrato.

A spiegare meglio il progetto, sono le parole dello stesso regista: «I tempi felici verranno presto nasce da un desiderio molto semplice: filmare delle persone in fuga. Ma anche da un desiderio molto complesso: capire cosa significa filmare persone in fuga. È un interrogativo che ha segnato tutto il mio lavoro di scrittura. Vedevo dei giovani correre, scappare da qualcosa di concreto e al contempo astratto. Una volta girato, ho capito che la minaccia non viene semplicemente da chi ti insegue o da quello da cui stai scappando. Si tratta di qualcosa di più universale.  

Il film è incentrato sul gesto primitivo di correre, scappare, che ha di per sé una forte carica narrativa. Tutto il film è una variazione sul tema della fuga, che è un istinto a rompere col mondo, con le strutture sociali che ci contengono e costringono. È un modo di essere che mi appartiene, è il mio modo di stare nel mondo. Trascorro gran parte del tempo a nascondermi, a rifugiarmi tra le persone e le cose che amo, a cercare la mia libertà. Per me fare film è una forma di apprendistato.

Da un punto di vista visivo sono due le sequenze di film che mi hanno guidato. La sequenza di apertura de I diamanti della notte di Jan Nemec (1964) e quella di chiusura di Il dio nero e il diavolo biondo di Glauber Rocha (1964). Sono due lunghi piani sequenza. Entrambi hanno fatto eco alla storia di Dino Selva, che è  all’origine del mio racconto cinematografico.

Tra le tante storie che i miei nonni mi raccontavano quand’ero bambino, la storia di Dino Selva è quella che mi ha sempre impressionato di più. Forse perché Dino è ancora vivo e lo conosco o forse perché mi hanno sempre emozionato le storie di fantasmi.

Dino, un amico di mio nonno e di mio padre, nel 1945 era tornato a piedi dalla Russia. Ragazzo di vent’anni, nel ‘41 era stato fatto prigioniero, ma era riuscito a saltare dal treno che doveva portarlo in Siberia. Da quel giorno aveva passato quattro anni in giro per l’Unione Sovietica, seguendo una direzione precisa, il Sud, il sole. In URSS aveva lavorato, imparato il russo, si era fatto imprigionare una seconda volta e di nuovo era scappato. Credo si fosse anche innamorato,  mentre a casa sua, in Friuli, nessuno lo aspettava più, si erano perse le sue tracce. Lo si era creduto morto assieme a tutti gli altri, congelato chissà dove.

Poi un giorno, a guerra finita, Dino torna al paese. Il suo fantasma in carne e ossa varca la soglia di casa. Il cuore del padre non regge di fronte a una tale gioia: qualche tempo dopo il ritorno del figlio, l’uomo muore.

Oltre a quella di Dino, conosco tante altre storie di guerra attraverso i racconti dei miei nonni. Ora, non so più se ero io che da bambino immaginavo quelle avventure come se fossero delle favole oppure se era appunto perché ero bambino che i miei nonni me le raccontavano come tali. Poco importa, quello che mi è rimasto è quella tenerezza per le avventure dove si mescolano storia e fantasia, realtà e finzione, che alla fine fanno tutt’uno, tanto che non sai più distinguere ciò che è vero da ciò che è semplice frutto dell’immaginazione.

I tempi felici verranno presto nasce dalla storia di Dino, dalla storia di un uomo che scappa dalla morte e a poco a poco prende piacere a scappare, spingendosi così in là da diventare una di quelle leggende mezzo fantastiche e mezzo reali che i miei nonni mi raccontavano.  Il tempo non esiste più: scomparso per quattro anni, creduto morto – e forse, chi lo sa, morto davvero in quegli anni – Dino comunque è tornato. Questo mi ha sempre colpito: una persona semplice, un soldatino senza gradi, uno di quelli che scompaiono a migliaia durante le guerre (ma anche il novantenne che conosco, che tiene ancora aperta la ferramenta in un paesino da cui tutti se ne vanno) ha vissuto delle avventure degne di un Eternauta o di un Ulisse.

Sviluppando dunque la storia di Dino Selva, I tempi felici verranno presto racconta l’incontro tra due esseri che, a loro modo, hanno qualcosa di eccezionale. Persone apparentemente senza storia, le cui azioni a prima vista hanno poco di straordinario, diventano eroiche proprio perché sono semplici e pure.

Arturo e Tommaso, protagonisti della prima parte del film ambientata durante la guerra, e Ariane, protagonista della seconda parte che si svolge nel presente, hanno un rapporto conflittuale con il mondo che li circonda, e tuttavia lottano per vivere. Ciò che accomuna le due epoche e i diversi personaggi è, innanzitutto, il tema della fuga, la fuga verso la natura, una pulsione vitale verso una vita solitaria condivisa con pochi amici e complici. Le due epoche sono, in secondo luogo, irrimediabilmente legate dal destino dell’essere umano, la morte.

Il punto di giunzione tra le due parti del film è la natura, intesa come ricerca dell’assoluto, della bellezza, della fusione con gli elementi, dell’accordo con l’infinito che sta dentro e intorno a ciascuno. È questa tensione verso l’assoluto a rendere eroici i miei personaggi: in guerra totale con l’ordine prestabilito, sono dei ribelli. Tommaso è un rivoluzionario destinato ad essere imprigionato e a fuggire all’infinito. Il conflitto di Ariane – figura reale e mitica insieme – è invece la malattia, che parla dell’individualismo e della solitudine che contraddistinguono l’epoca attuale.

I tempi felici verranno presto è un film che combina due componenti narrative. La prima è quella della storia, che prende spunto dai racconti della vita di Dino, ma si nutre anche di fiabe e leggende ed è dunque inventata. La verosimiglianza e plausibilità dell’inizio, molto realista, vanno via via sciogliendosi nel procedere della narrazione. Dalla storia si entra nel mistero: la vicenda accaduta cede il passo alla dimensione fantastica.  

L’altra componente è quella della messinscena, della regia, del punto di vista. Un’avventura all’apparenza “iperbolica” si trasforma in “documentario”.  

In che senso?  

Gli attori, perlopiù non professionisti, coincidono con i personaggi. La finzione ne è smorzata, la drammaticità viene meno, prende sfumature quasi simboliche, proprio come nelle fiabe o nei sogni.
In secondo luogo, mi servo di elementi presi direttamente dal reale. Negli ultimi anni le zone montane italiane si sono ripopolate di lupi, e gli attacchi al bestiame sono frequentissimi.

Abbiamo lavorato dunque, come si fa in un documentario, per individuare i luoghi più colpiti dall'animale e per “documentare” quei momenti dal vivo, con i veri guardiacaccia e i veri contadini. La realtà a volte è talmente perfetta in sé che non c’è bisogno di scriverla o di metterla in scena. Mi piace lavorare con elementi grezzi, imprevedibili. Documentare è cogliere il reale nel suo accadere, senza prepararlo o forzarlo. È compito del montaggio tenere dietro alla realtà, non viceversa.

Grazie alla sua frontalità la ripresa documentaria ha la capacità di spingere la realtà oltre ciò che appare, invitando lo spettatore ad affacciarsi sul meraviglioso. Quello che m’interessa in assoluto nel cinema sono le sensazioni di ordine fisico e percettivo. Con I tempi felici verranno presto il documentario emerge dalla finzione e con essa lavora per far vivere lo spettatore in quella zona d’ombra molto feconda e molto fragile situata tra la fantasia e la realtà».

Tutte le foto del film

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