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La Vita Agra
di callme Snake ultimo aggiornamento
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La Vita Agra

"Prima di cena scendevamo tutti insieme, con Corrado e la Marina, a prendere l'aperitivo - lo offriva quasi sempre lui, Fernaspe - e io ne profittavo per parlargli dello scoppio. Mi stava a sentire annuendo gravemente, sempre, e una volta anzi mi disse: "vedi, è un buon tema, e sono sicuro che tu sapresti svilupparlo bene, ma stai attento, perchè c'è il rischio di cadere nel solito neorealismo". "Come sarebbe?" gli chiesi. "Sì, tutte quelle gallerie, le case pericolanti, i minatori in attesa fuori del pozzo. C'è il pericolo di cadere nella cronaca di un certo tipo. E ora invece noi ci stiamo battendo per il passaggio dal neorealismo al realismo. Dalla cronaca alla storia. Tu hai visto Senso, vero?". In questo frammento di un romanzo disgregato e grigio, che parte da un fatto di cronaca in Toscana (l'esplosione di una miniera: un caso molto simile a quello della ThyssenKrupp) per poi implodere nel tentativo, inventato, di vendetta di un "io" senza identità, tutto l'astio di Bianciardi verso un'Italia, quella del boom, che si rifugia nei cavilli del lessico, della burocrazia, delle definizioni e delle classificazioni piuttosto che affrontare la crudezza della realtà. Non c'è nessuno nella Vita Agra che viva davvero, solo pseudo-personaggi, spesso senza nome, come il protagonista, che credono di sapere quello che vogliono fare, ma che poi non fanno e non sanno niente, né su loro stessi, né sul mondo che li circonda. Una trama pressoché inesistente, discorsi che si perdono per strada, personaggi che spariscono eclissati nel nulla, un lessico variegato e schizofrenico che materializza l'alienazione e l'impotenza, pagine di elencazioni e divagazioni che sfidano anche il lettore meglio predisposto verso l'opera. Un libro che è diventato un film, di Lizzani, ma che, per tematiche e stile, avrebbe dovuto essere sceneggiato da Antonioni e diretto da Godard, gli unici che avrebbero potuto renderne l'amarezza ed il grigiore, la frammentarietà e la freddezza. Un titolo che riprende quello del film di Fellini, di due anni precedente, già amarissimo e ironico, per trasformarlo in un grido opaco e sordo di dolore e rassegnazione. Un atto mancato per chi si appresta a leggerlo, sempre insoddisfatto da un romanzo che non è tale e che non concede proprio nulla allo spettacolo, mostrandosi per quello che è: una denuncia crudissima e distaccata, e proprio alla luce di questo efficacissima e desolante. Solo la descrizione delle studentesse fuori dall'accademia di Brera sembra portare un pizzico di luce in tanto grigiore: ma è un lampo che scompare presto in nome di una vita agra.

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